Ultimo atto di una vicenda che ha mobilitato per oltre un decennio l’opinione pubblica mondiale, ma la libertà non evade tutti i punti della controversia
Lontano da tutto, dal proscenio di un’interminabile battaglia legale, in un luogo sperduto in mezzo al Pacifico Occidentale, si è consumato l’ultimo atto di una vicenda che ha mobilitato per oltre un decennio l’opinione pubblica mondiale. Davanti a un giudice di Saipan, nelle Marianne settentrionali, territorio sotto amministrazione statunitense, Julian Assange ha posto la sua firma in calce al patteggiamento concordato con il Dipartimento americano della giustizia: un testo sul quale campeggia la parola “guilty”, colpevole per aver violato l’“Espionage act” pubblicando e diffondendo centinaia di migliaia di messaggi diplomatici e di documenti secretati. Reo confesso in cambio della scarcerazione, dopo 1’901 interminabili giorni rinchiuso nell’angustia del carcere di Belmarsh. Concordata ovviamente anche la pena, già scontata in Gran Bretagna e che gli permette di ritrovare immediatamente l’Australia e la libertà, dalle quali lo separava una dozzina di anni.
Joe Biden non aveva fatto mistero della sua intenzione di chiudere una vertenza che aveva posto in conflitto gli imperativi per la sicurezza nazionale da una parte, la libertà di stampa e la trasparenza democratica dall’altra. In termini giuridici: spionaggio e “conspiracy” contro lo Stato vs primo emendamento della Costituzione, caposaldo e mantra della democrazia liberale americana. Non a caso Barack Obama aveva graziato dopo 7 anni di prigione Chelsea Manning, l’analista della Us Army che aveva fornito i documenti secretati a WikiLeaks, e sospeso la procedura di incriminazione del suo celeberrimo fondatore.
Nelle ultime immagini dal carcere, Assange è apparso molto provato, depresso, aggrottato, quasi diafano, l’ombra sfocata dello spavaldo hacker tra il casual e l’azzimato, l’eroe planetario che aveva svelato le nefandezze delle guerre in Iraq e in Afghanistan. L’ultima paratia della sua resistenza sembrava ormai sul punto di cedere. La fine del suo atroce isolamento non può dunque essere che una buona notizia, per lui, i suoi familiari e per tutti quanti avevano perorato la sua causa. Ma la ritrovata libertà non evade tutti i punti della controversia: il fatto ad esempio di non aver anonimizzato i nomi degli informatori, ponendoli così in una situazione di estremo pericolo, o di aver compromesso l’elezione di Hillary Clinton (pubblicando sue e-mail riservate) a vantaggio di Donald Trump (che dopo aver chiesto la pena di morte per Assange ne scoprì improvvisamente le virtù: “I love WikiLeaks”).
Il patteggiamento aggiunge, come scrive il direttore della Freedom Press Foundation, un pericolo estremamente insidioso: l’ammissione da parte di Assange di aver violato la legge sullo spionaggio crea giurisprudenza e potrebbe spalancare le porte all’incriminazione di giornalisti che finora negli Stati Uniti hanno potuto beneficiare di una (quasi) illimitata libertà investigativa. C’è pure da auspicare che la massiccia mobilitazione per la libertà di stampa non venga riposta, assieme alle T-shirt con l’effigie di Assange, nei cassetti. Dalle giornaliste afghane confinate nelle loro case dall’oscurantismo islamista, ai reporter incarcerati e uccisi dal regime russo e repressi in Cina, a quelli impiccati in Iran fino ai palestinesi di Gaza abbattuti a dozzine da Tsahal quasi fossero trofei di caccia, la battaglia per la libertà di stampa avrebbe bisogno di almeno altrettanta sensibilizzazione internazionale.