Il vecchio trucco di camuffare l’interesse di pochi è collaudatissimo e funziona ancora, pure quando i vari passaggi avvengono sotto la vista di tutti
Una domenica grigia, umida e senza scossoni politici di rilievo. A voler identificare un denominatore comune nella giornata carica di oggetti in votazione, si potrebbe pensare a quello del mantenimento dello status quo. Consiglio federale e governo cantonale sono stati assecondati dal popolo in quasi tutte le loro raccomandazioni di voto. La prevedibile e sonora bocciatura in Ticino all’acquisto dello stabile Efg – quale futura sede della Cittadella della giustizia – può essere considerata, semmai, l’eccezione che conferma la regola. In effetti, dai risultati scaturiti dalle urne emergono nitidi i segnali che parlano di un sistema di valori piuttosto complesso, sorretto da tutta una serie di credenze, tradizioni, miti e leggende. Retaggi ideologici di un passato che sembra non voler passare (Greppi e Marazzi: ‘Il problema delle tre rendite’, laRegione dell’8 giugno) e che condizionano il presente, ma soprattutto il futuro.
Così, stando all’esito del referendum sulla modifica della Legge tributaria, emerge rinvigorito il principio che vede nello sgravio fiscale dei più abbienti un probabile beneficio per l’intera collettività, nonostante le numerose esperienze (locali e internazionali) che dimostrano quanto una tale teoria – del presunto sgocciolamento della ricchezza – sia priva di ogni fondamento empirico. Sono bastati però uno slogan iperefficace (“evitare l’aumento delle imposte per tutti”) e un massiccio investimento finanziario durante la campagna da parte dei sostenitori economici della riforma fiscale, per promuovere una sorta di ricatto vestito da soluzione “equilibrata e ragionevole”.
Si badi bene a un dettaglio: parliamo di investimento nella campagna, non di spesa. Già, perché da bravi uomini di affari i promotori economici del ‘Sì’ hanno fatto bene i calcoli: le centinaia di migliaia di franchi impiegate per tappezzare il Cantone di manifesti e messaggi pro riforma appaiono più che giustificate dall’atteso ristorno, cioè la riduzione – graduale ma inesorabile – del venti per cento dell’aliquota massima dell’imposta sul reddito. Investimento assolutamente proporzionato, dicevano e diranno in coro i sostenitori politici e mediatici degli sgravi fiscali accolti dal popolo. Anche questi hanno fatto i conticini, assolvendo senza indugio al loro mandato di rappresentanza.
Che poi fra pochi mesi ci si ritroverà a discutere dei tagli necessari per fare quadrare le cifre del Preventivo 2025 poco importa: il vecchio trucco di camuffare l’interesse di pochi fino a farlo diventare verdetto popolare è collaudatissimo e funziona ancora, pure quando i vari passaggi avvengono alla luce del sole e sotto la vista di tutti.
Fatto sta che circa il 57% del 49% degli elettori che ha effettivamente votato ha detto sì alla riforma fiscale così come proposta da governo e parlamento. Cioè, meno di un terzo degli aventi diritto ha accettato di concedere un notevole sconto di imposta a quell’un per cento dei contribuenti che rappresenta(va) circa un terzo del gettito: chi per portare a casa una maggiore deduzione per spese professionali; chi per beneficiare di un carico fiscale minore in caso di prelievo del capitale previdenziale; chi per vedersi facilitata la continuità in azienda; chi per un leggero taglio delle aliquote (1,66%) che presto potrebbe venir messo in discussione dai Comuni tramite aumento del moltiplicatore, oppure da una riduzione di servizi-prestazioni-sussidi del Cantone (per logici e inevitabili motivi di risparmio).
Lo scorso 24 aprile, al momento di assumere la presidenza del governo, il direttore del Dfe Christian Vitta affermava, riferendosi alle votazioni cantonali del 9 giugno, che “l’immobilismo non pagherebbe”. Risultato alla mano spiace osservare che, ancora una volta, il Ticino ha scelto di rimanere fermo, ostaggio di certe abitudini di pensiero (o meglio: di sudditanza) a quanto pare piuttosto impossibili da scardinare.