laR+ IL COMMENTO

Ricchi e poveri: la doppia personalità del Canton Ticino

Come è possibile essere ‘benestanti’ secondo alcuni indicatori macro e poi passare per il cugino ‘povero’ all’ora di pesare le buste paga?

In sintesi:
  • C’è chi dice che tutti questi dati sono ‘falsati’ dai frontalieri
  • Alla base c’è un problema strutturale dalle radici storiche
  • La questione è soprattutto politica
A furia di ripeterlo, prima o poi...
(Keystone)
26 marzo 2024
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A quanto pare viviamo in un cantone molto più ricco di quanto crediamo. Se guardiamo per esempio certe statistiche e vediamo il Ticino nella top ten della classifica intercantonale del Pil pro capite, potremmo (o forse dovremmo?) essere fieri e pensare che, in effetti, non siamo messi così male.

Anche le cifre della perequazione finanziaria suggerirebbero che viviamo in un cantone con un potenziale di risorse (uno dei criteri chiave considerato dalla Confederazione per definire chi paga e chi incassa i contributi) piuttosto importante. Grazie al meccanismo redistributivo fra cantoni in Ticino arrivano un’ottantina di milioni, circa il 90% in meno di quanto riceve il Vallese. Se fossimo un cantone davvero povero, potremmo ipotizzare, lo strumento perequativo garantirebbe al Ticino delle compensazioni nettamente maggiori.

Esiste poi un’altra statistica, pubblicata nei giorni scorsi, che rileva, anzi che conferma come gli stipendi dei ticinesi siano i peggiori di tutto il Paese, inferiori di circa il 20% rispetto al salario mediano svizzero.

A questo punto ci si potrebbe chiedere come sia possibile essere un cantone “benestante” secondo alcuni indicatori che misurano le capacità reali e potenziali della nostra economia, e contemporaneamente passare per il cugino “povero” della Confederazione all’ora di andare a pesare le buste paga.

C’è chi dice che tutti questi dati sono “falsati” dalla considerazione dei frontalieri, sia per quel che concerne gli stipendi, sia per quanto riguarda il Pil. Spesso infatti viene proposto di rifare i conti senza includere i lavoratori provenienti dalla fascia di confine, come se non esistessero. Il “sarebbe meglio senza” costituirebbe in verità una forzatura metodologica, ma non solo: nasconde pure uno sguardo intriso di un’ideologia che fa a pugni con la realtà. I frontalieri ci sono eccome: quasi 80mila in Ticino, senza i quali l’economia sarebbe completamente bloccata (per non parlare della sanità).

Alla base però c’è un problema strutturale dalle radici storiche: il fatto di essere un cantone in cui si concentrano prevalentemente attività a basso valore aggiunto implica che gli imprenditori, per mantenere stabile il livello di redditività dei loro investimenti, “debbano” sfruttare a pieno il “vantaggio competitivo” dato dalla disponibilità infinita di manodopera frontaliera a costi parecchio inferiori rispetto alla media svizzera. Tutte le storture successive, che portano pure a un onere fiscale accresciuto sulle spalle delle persone facoltose, partono da qui.

Forse, a furia di ripeterlo, prima o poi chi dovrebbe ascoltare ascolterà: la questione è soprattutto politica ed è legata all’incapacità (leggasi pure connivenza) della classe dirigente di concepire e attuare un piano di sviluppo a medio-lungo termine che contempli sia il settore industriale sia il terziario, che sia rispettoso dell’ambiente, che garantisca l’inclusione sociale e che preveda misure efficaci per combattere il fenomeno del dumping salariale. Per fare ciò il prerequisito non è quello di mettere in discussione le statistiche che ci indicano come, volendo, le risorse per consentire alla popolazione residente di condurre una vita dignitosa ci sarebbero: quello da mettere in discussione sarebbe l’attuale paradigma teso a mantenere intatti i privilegi di un ristretto gruppo di famiglie che da tempo immemore considera il Ticino il proprio feudo.