Denatalità, fuga di cervelli, onere fiscale accresciuto e spesa pubblica ‘troppo elevata’ hanno un comune denominatore: i salari troppo bassi
Come il cerchio di ‘Prima della pioggia’, anche il circolo vizioso in cui è intrappolato il Ticino è lungi dall’essere rotondo. Denatalità, fuga di cervelli, onere fiscale accresciuto e spesa pubblica “troppo elevata” hanno un comune denominatore (chiamiamolo pure fattore scatenante): i salari troppo bassi, inferiori di almeno il 20% rispetto allo stipendio svizzero medio. La tesi esposta dall’ex consigliere di Stato Pietro Martinelli (laRegione del 12 febbraio), rafforzata dalla visione del già direttore dell’Ustat Elio Venturelli (laRegione del 17 febbraio), fornisce una chiave di lettura indispensabile per chiunque voglia comprendere la dinamica finanziaria, politica e demografica del nostro cantone.
La sequenza sarebbe questa: i salari troppo bassi determinano la necessità di uno Stato sociale molto vasto, che vada a compensare le inefficienze del mercato del lavoro. Mercato del lavoro e relativo livello degli stipendi che vengono condizionati dall’inesauribile manodopera frontaliera, disponibile a lavorare in cambio di salari parecchio inferiori rispetto ai canoni elvetici. Qui bisogna fare attenzione però a non prendere la scorciatoia populista/sovranista: la causa del problema non è la presenza dei lavoratori frontalieri, come alcuni semplicisticamente provano a farci credere. La pressione al ribasso sui salari data dalla numerosa disponibilità di forza lavoro proveniente soprattutto dalla Lombardia è un elemento fattuale con il quale bisogna fare i conti in un cantone di frontiera. Il paradosso è che per alcuni attori, grandi imprenditori nostrani in primis, tale circostanza rappresenta addirittura un “vantaggio competitivo”: infrastruttura svizzera, stabilità politica-economica-giuridica svizzera, fiscalità svizzera, salari non svizzeri. Ergo, non c’è un vero interesse da parte dell’oligarchia locale – corporazioni economiche e rispettivi rappresentanti politici – ad attuare misure efficaci per tenere a bada il fenomeno del dumping salariale. Anzi: lo si sfrutta e basta.
Fatto sta che quello Stato sociale necessario a contenere tutti i ‘working poor’ e i disoccupati residenti in Ticino, nonché a garantire un’infrastruttura adatta alle dimensioni dell’economia ticinese, ha un costo. Costo che va finanziato attraverso le imposte. C’è poco da stupirsi allora se il maggiore onere fiscale a carico delle persone particolarmente facoltose porta il Ticino negli ultimi posti della classifica intercantonale. Parliamo, tra l’altro, di un cantone privo di un piano integrato di sviluppo, che tende a voler approfittare a brevissimo termine delle varie “opportunità” – piazza finanziaria, fashion valley eccetera – senza prendere in considerazione eventuali conseguenze sul lungo periodo, e dal quale i giovani preferiscono scappare alla ricerca di migliori possibilità di lavoro (con l’aggravante che una popolazione più vecchia comporta maggiori costi a carico dello Stato).
Ha ragione Martinelli: la pretesa di uno Stato minimo, con un’imposizione minima, in un contesto di salari minimi (minimi in quanto minuscoli, la legge sul salario minimo non c’entra) è una grande ipocrisia. Ipocrisia che contraddistingue buona parte della classe politica ticinese che continua, imperterrita, a girare attorno a questo cerchio/circolo vizioso non rotondo nel miope tentativo di salvaguardare, a scapito della collettività, rendite di posizione di quei pochi privilegiati dai cognomi illustri.