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La strage della farina

Sono tante le strade che, anche bizzarramente e disordinatamente, si intrecciano e che portano a Gaza. Dove la fame è studiata e applicata anche come arma

In sintesi:
  • La carneficina è avvenuta nella parte nord del Paese
  • Fame che è anche arma di distrazione di massa
  • Un mondo schizofrenico, sull’orlo del peggio, apparentemente impazzito
Gli uomini-formica prima dell’infuocata alba mediterranea
(Keystone)
2 marzo 2024
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Non dimenticate l’ora, che già dice molto, se non tutto. Le cinque del mattino, la linea indefinita fra notte e alba, non c’è più l’oscurità totale, ma nemmeno è cominciato il giorno. A Gaza non si dorme. Così, a quell’ora, le immagini filmate da occhi satellitari o dei droni in funzione permanente o chissà quale altra diavoleria, mostrano migliaia di uomini-formica che escono dalle macerie, si precipitano verso il convoglio di uno dei rari trasporti umanitari. Una moltitudine angosciata, frenetica, come impazzita. Spinta da una disperazione che si chiama fame, che insieme a decine di migliaia di morti (finora 25mila, secondo fonti americane), feriti, mutilati e distruzioni è merce sempre più abbondante e letale (soprattutto per i bambini) in quel paesaggio tragicamente lunare. All’assalto per qualche manciata di pane e cibo. Quindi, improvvisamente, la fuga disordinata e caotica, il ritorno precipitoso verso i moncherini dei palazzi distrutti, una calca assassina dopo alcuni spari sulla folla, corpi travolti, corpi calpestati, corpi inanimati. Così è “la strage della farina”.

Semplici spari di avvertimento, spiega l’esercito israeliano (ma ‘avvertimento’ per cosa?). Pallottole micidiali sulla folla, è la versione di Hamas e dei testimoni. Ma poi, per le vittime, cosa cambia? Nulla. Più di cento morti palestinesi. Mitragliati o finiti nel pandemonio della fuga. Ma il bandolo insanguinato di questa “tragedia nella tragedia” rimane lo stesso. La feroce punizione collettiva, insopportabile, genocidaria, imposta alla popolazione civile, che per Netanyahu e per i suoi fanatici alleati nazional-messianici, fors’anche per parte non piccola della cittadinanza ebraica, è in buona sostanza complice della barbarie anti-israeliana del 7 ottobre, tragedia inattesa che continua a cristallizzare lo stato d’animo, perpetuare le angosce, alimentare la vendetta e gli umori della popolazione di un intero Paese. Insieme al regime di Hamas, che sa di servirsi anche dei suoi civili doppiamente prigionieri, questa è la radice della “strage della farina”.

Per una comunità di due milioni e più di persone accalcate in trecento chilometri quadrati, schiacciati perlopiù con alle spalle l’insuperabile muro del confine con l’Egitto, di fronte i carri armati e l’artiglieria di Tsahal, e sopra la testa il fuoco nemico dell’aviazione. Nel caso specifico, comunque, c’è anche di peggio. La carneficina è avvenuta nella parte nord del Paese, quella del primo assalto israeliano, gente che non ha voluto o potuto fuggire, seguendo l’ordine dell’occupante, verso un Meridione che doveva essere “securizzato” e che invece è diventato subito un’immensa trappola. In attesa dell’offensiva finale contro Rafah, la città di confine, diventato precario, formicolante, immenso accampamento, centinaia di migliaia di persone in cerca di salvezza, che si nutrono soprattutto di speranza, riuscire a mettersi in salvo superando il confine, chissà come e chissà quando, visto che è l’ultima cosa che il rais egiziano, il “fratello arabo” generale-presidente Al Sisi vorrebbe, lui che ha spodestato con un colpo di Stato i Fratelli musulmani, che ne ha sbattuto in galera migliaia, che (esattamente come Israele) riceve i miliardi dell’aiuto statunitense, e che non vuole mettere a disposizione nemmeno una piccola fetta di Sinai in cui accogliere i disperati di Gaza, perché magari infiltrati da Hamas che della Fratellanza fa storicamente e ideologicamente parte. Israele ed Egitto alleati, al di là dei proclami ufficiali del Cairo. Non solo le tendopoli di Rafah assediata. Ma anche l’infinita fitta sequenza di profughi rifugiatisi lungo le spiagge di Gaza, bunker a cielo aperto, sogno di sopravvivenza legato anche ai pacchi alimentari che “aerei amici” (di Paesi alleati di Netanyahu) lanciano in mare, con pescatori che escono per recuperarli, sempre e comunque sotto tiro della marina israeliana.

Così come gli Stati Uniti di Biden: sempre più lontani dal governo di Gerusalemme, sempre più preoccupati da una escalation antiumanitaria che ne indebolisce la posizione regionale, ancor più inquieti dopo il boicottaggio delle Primarie democratiche nel Michigan dalla folta comunità islamo-americana; ma Stati Uniti che poi immancabilmente pongono il veto-chiavistello a ogni risoluzione nel Consiglio di sicurezza dell’Onu quando reclama il cessate il fuoco, ben sapendo che, sul piano elettorale, ben più potente e importante dei suoi concittadini di origine araba sono quelli di religione ebraica.

Sono tante le strade che, anche bizzarramente e disordinatamente, si intrecciano e che portano a Gaza. Dove la fame – spesso nella storia, e un po’ come ai tempi di Stalin per l’Ucraina anticollettivista – è studiata e applicata anche come arma. Scarsissimo cibo, pochissimi convogli in rapporto alle enormi necessità di un popolo “rifugiato in casa propria”, criminali ruberie di quel poco, e prezzi alle stelle, raddoppiati o triplicati.

Fame che è anche arma di distrazione di massa. Perché parallelamente, fra non poca distrazione, si gonfiano pure i numeri delle vittime palestinesi in Cisgiordania, dove vige esclusiva la legge militare. Da 400 a 500 morti e migliaia di altri arresti dall’inizio di questa nuova pagina di orrore. E in risposta episodi terroristici, come è ancora avvenuto ieri. Parallelo improponibile, certo. Anche perché intanto, a ovest del fiume Giordano, aumentano il numero e l’aggressività dei coloni ebrei, puntualmente protetti dall’esercito, “settlers” fanatici, fautori di una generale espulsione degli arabi da “Giudea e Samaria” (oltre che da Gaza), che si impadroniscono di case e campi palestinesi, e sono sempre più armati dall’ala oltranzista del governo. Colonie illegali, tutte, ma proprio tutte, anche quelle di Gerusalemme Est, in base al diritto internazionale. Diritto trattato come carta straccia, inutile orpello, fastidiose e inapplicate regole, decine di volte violate, soprattutto dai governi di Tel Aviv o di Gerusalemme. Il tutto obiettivamente complice del montare di un antisemitismo che purtroppo riempie strade e piazze delle nostre città, anche con slogan detestabili, fornendo ai difensori di Israele il pretesto che antisionismo e antisemitismo siano fatti della stessa pasta antiebraica. Mentre così non è.

Dopo un lungo e colpevole sonno, complessivo fallimento della comunità internazionale. Dell’Occidente che si vuole democratico. Mentre al Cremlino si gongola per tanta confusione e irresolutezza dell’“Occidente complessivo, debole e debosciato”. Verso cui Vladimir Putin, fra la morte misteriosa in carcere di un oppositore e l’arresto di nuovi dissidenti, che infastidiscono (niente di più) la sua scontata rielezione presidenziale fra poche settimane, nuovamente rinnova lo spettro nucleare, l’Armageddon, il giudizio finale atomico, se sarà necessario per la sopravvivenza non semplicemente della Russia, bensì della Russia imperiale.

Un mondo schizofrenico, sull’orlo del peggio, apparentemente impazzito. Come gli uomini-formica prima dell’infuocata alba mediterranea. Ma si sa che nella follia vi è il “bastone contorto” della storia. Vi può essere anche del metodo. Così, a Gaza, si può continuare a morire di fame.

Questo articolo è stato pubblicato grazie alla collaborazione con il blog ‘naufraghi.ch’