laR+ il commento

Io non sono razzista ma...

La pietas non si ferma nemmeno davanti a un gruppo di minorenni afghani senza un tetto, e travolge tutto, da Sinner alle macchiette dei comici

In sintesi:
  • Difendere la propria identità deturpando la propria lingua. Ma ha senso?
  • Non c'è argomento che non sia buono per sputare un po' di razzismo
‘Odio’ e ’Più odio’
(Keystone)
30 gennaio 2024
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“Non siamo noi che siamo razzisti. Sono loooooro che sono napoletani”. Era questo lo slogan declamato in tv – in una surreale tribuna politica di inizio anni Novanta – da Giobbe Covatta, segretario (con accento napoletano) della Liga (con la i) Lombarda, parodia delle nascenti leghe e della loro strategia semplice ed efficacissima in cui il colpevole era, è e sempre sarà, “l’altro”: il terrone, il frontaliere, l’italiano, il migrante, il rifugiato, l’africano, l’extracomunitario o il comunitario, a seconda delle latitudini, del piede al di qua o al di là di un confine e dei bisogni contingenti di chi parla e cerca voti pescando a strascico.

Commenti simili – ma ahinoi totalmente privi della carica ironica di Covatta – sono apparsi sui social network de laRegione in coda all’articolo “Ricorsi contro il foyer per asilanti minorenni a Cresciano” in cui si racconta dell’opposizione a carte bollate di un gruppo di persone a un centro per dare alloggio a 15-20 giovanissimi richiedenti asilo (perlopiù afghani) senza genitori o parenti. A leggere il pezzo, i ricorrenti spiegano di non essere contrari per principio, “ma alla modalità con cui è stata fatta la domanda di costruzione”. Se c’è anche un retropensiero non è dato saperlo. Di sicuro ci sono i pensieri – anche se si fa fatica a definirli tali – degli incattiviti della Rete, che danno l’idea di questo egoismo imperante, di un razzismo da pianerottolo dove il nemico si annida dappertutto, perfino in una dozzina di ragazzini fuggiti da un buco nero dove le donne devono avere il burka, ma non l’accesso all’istruzione, dove non c’è musica alla radio. E dove non c’è musica – per quanto possa sembrare futile – non c’è vita, non c’è speranza, non c’è niente.

È che la pietas non esiste più, a forza di vivere chiusi dentro ai nostri telefonini come pendolari incattiviti nelle loro auto dentro al traffico, a inveire contro tutto e tutti, tanto c’è un vetro (o uno schermo) a separarci dalla realtà. Ma non è così, quel che diciamo e scriviamo esiste, siamo noi. E quindi ecco, così come sono scritti (con un minuto di silenzio per ortografia, grammatica e punteggiatura), certi ritratti: “I soldi per gli asilanti ci sono e per gli Svizzeri in difficoltà non ci sono vergognoso”; “fanno solo danni, mantenuti dagli svizzeri a fare nulla e ubriacarsi”. O ancora “… i soldi per questi qua ci sono sempre. Che vergogna questo Ticino, con una politica che fa Aqua da tutte le parti”. C’è pure chi cita inconsapevolmente Covatta: “Non siamo razzisti, ma purtroppo noi Svizzeri Ticinesi... siamo stufi. Chi è così altuista perché non se ne porta a casa sua qualche profugo e se lo mantiene in tutti i sensi?”.


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Uno dei messaggi anti-Sinner su X

La solita solfa, insomma, con il web che sovrappone Cresciano e Melbourne dopo il trionfo di Jannik Sinner agli Open d’Australia. Una piccola (ma rumorosa e nemmeno così rumorosa) parte di Italia, infatti, ci ha tenuto a far sapere al mondo che quella vittoria non è in loro nome, perché Sinner “non è italiano”, in quanto altoatesino e madrelingua tedesco. Una strana teoria. Razzista. Perché l’Alto Adige sta in Italia come il Ticino in Svizzera. Sarebbe come se a Zurigo si dicesse che i ticinesi non sono svizzeri, ma italiani solo perché appartenenti a una minoranza linguistica.

A chiudere il cerchio aperto da Covatta – e insozzato dagli xenofobi da tastiera e da marciapiede – c’è il rapper Willie Peyote quando canta: “Chi dice ‘io non sono un razzista ma’ è un razzista ma non lo sa”.


Keystone
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