Si pone la questione dell’eventuale cooptazione dei tragici eventi mediorientali in questa tornata di commemorazioni
Sarà una ‘giornata della memoria’ molto particolare, quella che si celebrerà fra qualche giorno. La ricorrenza della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz in quell’inizio 1945, fu istituita dalle Nazioni Unite per commemorare le vittime dell’Olocausto. In diversi ambienti, ebraici in particolare, a qualche giorno dal 27 gennaio, le discussioni, i dubbi, le divergenze si moltiplicano. È ovviamene il contesto creato dalla carneficina di Hamas a porre il problema: integrare o no quanto successo lo scorso 7 ottobre nelle cerimonie, discussioni, conferenze? Metterlo in relazione con la Shoah? E se si parla della strage di Hamas, che giudizio dare della rappresaglia israeliana che ha fatto un numero di morti venti volte maggiore?
Il tema della memoria storica assume da sempre una rilevanza centrale nella vita sociale e politica: basti pensare alla messa al bando della Ong Memorial (che aveva documentato i massacri staliniani, addirittura molto più estesi di quelli hitleriani prima dello scoppio della guerra) da parte del regime russo poco più di due anni fa. O della diatriba sull’origine dell’Ucraina (culla della Russia, creatura vichinga, entità autonoma?). George Orwell già aveva brillantemente messo in relazione, nel suo celeberrimo ‘1984’, la gestione della memoria storica con il potere politico: “Chi controlla il passato controlla il futuro...”. Non si tratta dunque solo di guardare al passato, ma di plasmare il presente in funzione di quanto si vuole o non vuole ricordare. Nell’Olocausto, massacrati dagli Einsatzgruppen, uccisi nei campi di concentramento o di sterminio, morirono circa 18 milioni di persone. Almeno 5 milioni di ebrei, un numero imprecisato di omosessuali, handicappati, Rom, testimoni di Geova, comunisti, prigionieri russi. Una tragedia immane, giustamente ricordata nel mondo, dalla quale è sorto un infinito dibattito che spazia dal perché fu decisa la “soluzione finale” fino alla specificità di questo genocidio. Elie Wiesel, sopravvissuto al campo della morte di Auschwitz, sosteneva che la Shoah non è paragonabile a nessun altro sterminio. Altri denunciano questa volontà di creare una gerarchizzazione o un “monopolio della sofferenza” e, come lo studioso Norman Finkelstein (‘L’industria dell’Olocausto’), stigmatizzano la strumentalizzazione ideologica e politica del passato, che tenderebbe a scartare qualsiasi critica a Israele.
Ecco allora che si pone la questione dell’eventuale cooptazione dei tragici eventi mediorientali in questa tornata di commemorazioni. A fornire una risposta affermativa, a nostro giudizio alquanto discutibile, ci ha pensato Lia Levi, scrittrice e giornalista che in un articolo apparso su shalom.it (ripreso da ‘la Repubblica’) dal titolo alquanto esplicito (“Non meritate il nostro dolore”) si scaglia perentoria contro l’opinione pubblica (non ebraica), critica col governo di Tel Aviv: “Ci siamo difesi (dopo il 7 ottobre, ndr) e voi avete (ri)cominciato a odiarci”. Chiaro il riferimento al passato. Quel “noi”, in un amalgama totale tra ebrei e governo israeliano, fa correre qualche brivido sulla schiena. Una visione paradossalmente simmetrica a quella del veleno antisemita: noi e voi, i virtuosi e gli indegni, senza mai lasciar il seppur minimo spazio alle ragioni o alla sofferenza dell’altro. È questa logica perversa che ci condanna a non far mai tesoro del nostro passato.