Il consigliere agi Stati ticinese lascia dopo soli tre anni e mezzo la guida di un partito che non è più (solo) ‘quello di Blocher’
‘Marco chi?’ (‘Tages-Anzeiger’, 7 agosto 2020); ‘Paziente Udc’ (‘Nzz’, 2 dicembre 2021); ‘Dov’è veramente il presidente?’ (‘Nzz’, 20 maggio 2022); ‘Che partito è questa Udc?’ (‘Nzz’, 9 gennaio 2023); ‘Marco Chiesa deve accendere il turbo’ (‘Die Weltwoche’, 15 febbraio 2023).
Se uno rilegge i titoli apparsi negli ultimi anni e fino a pochi mesi fa sulla stampa svizzerotedesca alla luce delle parole usate ieri dall’Udc e dallo stesso Marco Chiesa (“ottimi risultati”, “grande successo”, “obiettivi raggiunti”, “missione compiuta”), ha una sensazione di straniamento: a stento riesce a credere che si possa trattare dello stesso partito, della stessa persona. Ma fatta la tara di quel che sappiamo (l’amplificazione mediatica, la retorica partitica) e di quel che è successo nel frattempo (la crescita di consensi alle Federali del 22 ottobre, la ‘congiuntura tematica’ favorevole che l’ha propiziata), questa sensazione svanisce. Lasciando comunque emergere una realtà più sfumata.
Il presidente è il ‘volto’ di un partito. Un volto sfocato, nel caso di Marco Chiesa. Per svariate ragioni.
Il luganese ha assunto la carica (che ieri ha annunciato di voler lasciare a fine marzo) nell’agosto del 2020, quando nessuno era disposto a farlo (adesso invece sono già in diversi ad aver palesato interesse…). Tre anni e mezzo. In questo breve lasso di tempo, il volenteroso consigliere agli Stati si è dato un gran daffare. Spesso è apparso a disagio in questa veste (l’ostacolo della lingua conta, certo, ma non dice tutto). Ha vissuto – come qualsiasi altro presidente di partito – sia alti (il ‘no’ alla Legge sul CO2) che bassi (il ‘no’ all’Iniziativa per la limitazione) in votazione popolare. Né gli uni né gli altri possono però essergli intestati in misura eccessiva. Lo stesso discorso vale per i risultati del suo partito (per lo più positivi, benché sopravvalutati: le percentuali non dicono tutto…) alle elezioni federali e cantonali.
Chiesa, come volevasi dimostrare, sarà stato un presidente di transizione. Per un’Udc che non è più (solo) ‘quella di Blocher’. Oggi l’Unione democratica di centro è un partito dalle solide strutture, ben radicato ovunque (anche in Romandia e in Ticino), che può contare su ingenti risorse, con una nutrita direzione ‘collegiale’. E con un segretariato centrale estremamente efficiente, guidato (dal terzo piano di Palazzo federale…) dal brillante quanto discreto Peter Keller (poche parole o slogan ripetuti spesso come un disco rotto da Chiesa e dagli altri ‘tenori’ democentristi non sono passati prima al vaglio del nidvaldese…). Parliamo di una potente macchina elettorale, in grado anche di lanciare referendum e iniziative popolari con buone chance di successo.
A un partito così, al cui vertice il potere è diffuso, suddiviso tra più persone, anche il poco carismatico ‘senatore’ luganese andava bene come presidente. In un certo senso ha ragione l’analista politico Michael Hermann, quando dice che “è incredibilmente irrilevante” chi lo guida. Ma c’è qualcosa di più: Chiesa era persino funzionale a un partito ormai multicefalo, nel quale lui – in base a “una strategia mirata” evocata ieri nell’intervista ai giornali di CH Media – lasciava che altri (Magdalena Martullo Blocher, Marcel Dettling, Thomas Aeschi, Thomas Matter) assumessero di fatto il ruolo di copresidenti.
Nei prossimi anni a questa Udc servirà però anche un presidente meno impalpabile, soprattutto nella Svizzera tedesca, per partire lancia in resta contro i soliti nemici di sempre: l’Ue e i ‘giudici stranieri’, gli immigrati ‘colpevoli’ di creare una Svizzera da 10 milioni di abitanti, i richiedenti asilo. O la Ssr.