Il presidente egiziano al-Sisi guiderà il Paese fino al 2029 nonostante le torture agli oppositori, l’economia allo sfascio, i poveri in continuo aumento
Avere come competitori degli sparring partner, intimidire gli avversari con ogni mezzo e il gioco è fatto. Così se ne stanno belli comodi al potere, per anni, i leader di quelle che potremmo definire pseudo-democrazie. Succede in Russia con Putin ed è il caso, in Egitto, per il generale Abdel Fattah al-Sisi, riconfermato con ben il 94% di consensi, nelle presidenziali tenutesi il 10 e l’11 dicembre scorsi.
L’uomo forte egiziano, ma sarebbe meglio dire spietato, è in carica dal 2014, dopo aver rovesciato l’esponente dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi, morto nel 2019. Morsi aveva tentato di importare in Egitto il movimento della Primavera araba naufragato, così come nel suo Paese promotore, la Tunisia, per mano di un altro autocrate, Kaïs Saïed. Presentatosi al voto con tre altri candidati, praticamente sconosciuti all’elettorato, al-Sisi ha ottenuto, senza sorprese, il suo terzo mandato presidenziale la cui durata, grazie a una riforma costituzionale da lui stesso voluta, è passata da 4 a 6 anni. Il che significa che il 68enne ex responsabile dei servizi segreti guiderà l’Egitto fino al 2029. Questo nonostante abbia fatto imprigionare e torturare migliaia di oppositori, l’economia sia allo sfascio e la crescita demografica incrementi, di continuo, il numero dei poveri.
Di fronte a tutto ciò il presidente egiziano ha pensato bene di investire una fortuna costruendo un monumento che lo tramandasse ai posteri. Addirittura una nuova capitale, “Sisi-City”, su una superficie grande 7 volte Parigi e in chiaro stile Dubai. Un’immensa cattedrale nel deserto, nel vero senso della parola – è infatti costruita sulla sabbia – a gloria del nuovo Faraone, mentre la maggioranza dei 110 milioni di egiziani è alle prese con una vita di privazioni, tra cui spiccano le quotidiane panne elettriche. Al-Sisi può, comunque, stare tranquillo perché, ancora di recente, gli Stati Uniti, che finanziano l’Egitto con un miliardo di dollari l’anno, hanno sottolineato il suo ruolo di Stato chiave per la stabilità della regione medio-orientale. Inoltre, dopo il 7 ottobre, con il feroce attacco di Hamas contro Israele, la mano dura contro l’estremismo islamico, da parte dei militari al potere al Cairo, rafforza, agli occhi di Washington, la posizione di al-Sisi. Il quale ha messo fuori legge i Fratelli Musulmani, ovvero gli ispiratori di Hamas. Va detto, poi, che la tragedia consumatasi negli ultimi due mesi, prima in Israele poi a Gaza, ha distratto l’elettorato egiziano dai molti problemi irrisolti dal governo, dirottandoli su quello che stava avvenendo sulla loro porta di casa.
Lo stesso al-Sisi ha contribuito a mettere in guardia i propri cittadini sulle conseguenze del conflitto israelo-palestinese, preoccupato dall’eventualità che gli abitanti della Striscia, sulla spinta dell’esercito israeliano, finiscano per rifugiarsi nel Sinai. Ciò che rappresenterebbe una sorta di nemesi storica, visto che la penisola venne consegnata all’Egitto, da Israele, nel 1979, grazie agli accordi di Camp David. Ora quella conquista diplomatica rischia di trasformarsi in un regalo avvelenato: centinaia di migliaia di profughi, tra cui molti potenziali terroristi islamici, si ritroverebbero nello stesso Paese il cui presidente è uno spietato cacciatore di jihadisti.