Il venezuelano Maduro fa votare il suo popolo sulla possibilità di appropriarsi di un pezzo del Paese vicino. Cosa non si fa per salvare rapporti consunti
La mossa disperata davanti a un rapporto che si sta disintegrando è un grande classico. C’è un momento in cui comprare casa insieme, sposarsi, fare un figlio (o un altro figlio) mentre la propria relazione sta andando incontrovertibilmente in frantumi sembra “la” soluzione: quasi mai lo è. In quei momenti di appannamento, con tutta l’attenzione rivolta a prendere al volo i pezzi che cascano, si vive nell’illusione di poter invertire la rotta.
Nella relazione ormai consunta tra il Venezuela e il suo presidente Nicolás Maduro sta accadendo più o meno la stessa cosa. La mossa disperata è l’annessione dell’Esequibo, un territorio grande tre volte la Svizzera (ma con un terzo degli abitanti del Ticino) che appartiene alla confinante Guyana: forse il più misconosciuto e debole dei Paesi del Sudamerica.
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La mappa e il territorio conteso
Ma perché Maduro vuole a tutti i costi un pezzo di Guyana? Lui dice perché l’Esequibo, prima (parecchio prima, oltre un secolo fa), faceva parte del Venezuela. Un Venezuela che – sia detto – era un’altra cosa in un altro mondo.
Che l’Esequibo sia pieno di oro, petrolio e diamanti non è un caso né un dettaglio, anzi. Mettere le mani sull’Esequibo, insomma, è come imbattersi in un nuovo microcontinente vergine. Eppure Maduro non riesce a sfruttare nemmeno le sue attuali (ed enormi) riserve di petrolio, né a rilanciare un’economia devastata, tantomeno a contenere la criminalità dilagante o la fuga disperata verso i Paesi vicini dei venezuelani senza un soldo. Ha salvato a malapena sé stesso, dopo dieci anni di presidenza, di cui quattro in coabitazione con Juan Guaidó, il ribelle sostenuto, ma non abbastanza, da un pezzo di Paese (e da Washington).
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Hugo Chavéz, fu lui, amatissimo, a scegliere Maduro come successore
In quest’ultimo decennio decadente, Maduro ha cercato di fare quel che era riuscito al suo mentore Hugo Chavéz, che – seppur tra mille ambiguità – aveva messo in moto un circolo virtuoso: l’economia cresceva (grazie anche a una congiuntura internazionale favorevole che gonfiò i prezzi del petrolio aumentando le entrate statali) e Chavéz riuscì, non senza un populismo di stampo caraibico, a ridistribuire un minimo la ricchezza. Dopo di lui, e quindi con l’arrivo di Maduro, il diluvio.
Per far smettere di piovere nella barca venezuelana che affonda, Maduro si affida alla vecchia ricetta del revanscismo e del nazionalismo a buon mercato. Così fecero i generali argentini in calo di consensi quando cercarono di andare a riprendersi le Falkland/Malvinas, così fanno da sempre quei Paesi che per nascondere un problema interno ne creano uno fuori, spacciandolo per una conquista. Così in Venezuela si è andati a votare per riprendersi l’Esequibo, un plebiscito sventolato da Maduro che non è un plebiscito: il 95% dei votanti sta con lui, ma la metà di chi aveva diritto di voto è rimasta a casa. Ora resta da capire quale via si sceglierà, se diplomatica o militare. Nel dubbio, il Brasile – che sta a due passi – ha aumentato la presenza dell’esercito in questo nulla amazzonico con dentro di tutto.
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La foresta della Guyana
Certo, la questione dell’Esequibo non è mai stata davvero risolta (e hanno le loro colpe i britannici, che la Guyana la controllavano, gestendo uno dei tanti pezzi di mondo che non era loro), nonostante un primo trattato a Parigi (1899) e un successivo patto siglato in Svizzera (nel 1966) definito – con un grande slancio comico della diplomazia dell’epoca – “un accordo per arrivare a un accordo”. Cinque anni più tardi usciva nei cinema ‘Il dittatore dello Stato libero di Bananas’, con Woody Allen in uniforme e il barbone alla Castro: faceva ridere. ‘Il dittatore dello Stato libero di Guyana’ molto meno.
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Woody Allen ne “Il dittatore dello Stato libero di Bananas”