È automatico quanto inaccettabile che le donne fin da giovani siano chiamate ad adeguare il proprio comportamento per prevenire la violenza maschile
Vietare agli uomini di uscire dopo le 18, così da consentire alle donne di spostarsi per le vie in modo sicuro. Con la proposta di istituire un coprifuoco maschile, un paio di anni fa una deputata del parlamento inglese aveva scatenato un gran polverone nel Regno Unito. L’aveva formulata in seguito alla scomparsa di Sarah, una 33enne di cui si erano perse le tracce dopo che aveva chiamato il fidanzato tornando a casa da una cena. Il suo corpo è stato trovato alcuni giorni più tardi, all’interno di un sacco in un bosco, fatto a pezzi e bruciato da un agente di polizia che l’aveva rapita, stuprata e strangolata. Nel frattempo, mentre ancora si cercava Sarah ma già si intuiva il peggio, le forze dell’ordine avevano suggerito alle donne di Londra di non uscire da sole dopo le 18. Quella della deputata era una proposta provocatoria, come ha dovuto specificare dopo la pletora di critiche e messaggi d’odio che le sono piombati addosso. L’intento non era di fornire una soluzione al problema della violenza di genere – che nella maggior parte dei casi avviene nascosta tra le mura domestiche ed è commessa da qualcuno di conosciuto – ma di mettere in luce i doppi standard usati per donne e uomini.
Fin da giovani alle ragazze viene raccomandato di fare attenzione nello spazio pubblico, spesso con prescrizioni quali non tornare tardi la sera, farsi sempre accompagnare, non passare da determinati luoghi, non uscire con abiti corti o scollati, non bere alcolici. Le donne sono abituate a una limitazione della propria libertà di movimento e azione – una sorta di coprifuoco informale che non indigna nessuno – per evitare il rischio di essere importunate, violentate o uccise per strada. Vige un implicito paradigma socialmente accettato per il quale la città è pericolosa per le donne, e se queste la vogliono attraversare devono attenersi a strategie precauzionali. Chi sfida tale concezione merita ciò che di male può succederle, come ancora si sente dire in alcuni processi, sia nelle aule penali che nelle stanze virtuali dei social media. “Se non fosse stata lì da sola a quell’ora vestita in tal modo e ubriaca, non le sarebbe capitato niente”.
Insomma, le donne devono adeguare il loro comportamento per prevenire la violenza maschile. Questo mentre la società discute delle loro libertà e del loro corpo da normare, proteggere, possedere, commentare nelle chat come al mercato della carne. Un corpo menomato di quella autodeterminazione di cui gli uomini si arrogano il pieno diritto. Ed è questo il meccanismo alla base della violenza di genere, quella perpetrata sulle donne in quanto donne, caratterizzato da un rapporto di potere in cui l’emancipazione femminile è ritenuta inaccettabile. Un fenomeno dalle dimensioni spaventose: considerando solo il suo apice, in Italia si contano mediamente otto femminicidi al mese, in Svizzera due. Qui però abbiamo un sesto degli abitanti.
A scuola, nelle associazioni sportive, sui media, da parte delle istituzioni: serve un intervento trasversale e strutturale per combattere un tipo di violenza lei stessa strutturale e trasversale. A cominciare dalle famiglie. Prima di insegnare alle figlie femmine codici di condotta privativa affinché si proteggano, bisognerebbe rivolgersi ai figli maschi per decostruire una certa visione di mascolinità. Perché la violenza contro le donne è responsabilità degli uomini che si sentono legittimati a prevaricarle. E sono loro che oggi 25 novembre, come tutti gli altri giorni dell’anno, vanno educati a decolonizzare gli spazi, i desideri e le esistenze dell’altra metà del mondo e a smetterla di lastricarla di vittime.