È soprattutto una questione di contesto: sarà infatti l’evoluzione dell’economia nei prossimi anni a condizionare le sorti del canone radiotelevisivo
Come per Johnny Carter (cioè, Charlie Parker) nel ‘Persecutore’ di Cortázar, il tempo è il protagonista centrale di questa storia. Storia che vede la Società svizzera di radiotelevisione (Ssr) correre contro le lancette dell’orologio: tic-tac, tic-tac…
Sono almeno due gli anni a disposizione dell’emittente pubblica per pianificare l’adeguamento della sua struttura a un’inevitabile riduzione del canone varata dal governo, prima che nel 2026 la popolazione, a meno di improbabili colpi di scena, si rechi alle urne per pronunciarsi sull’iniziativa ‘200 franchi bastano!’. Iniziativa che, in caso di approvazione, dimezzerebbe le risorse a disposizione del servizio pubblico e comporterebbe, secondo Albert Rösti, capo del Datec nonché promotore – prima del suo ingresso nella stanza dei bottoni – dei 200 franchi, “effetti di vasta portata sull’offerta giornalistica e il radicamento regionale della Ssr”.
Ecco allora il male minore proposto dal governo: una diminuzione “contenuta” del canone in due tranche, che lo porterebbe a 300 franchi per le economie domestiche a partire dal primo gennaio 2029, giorno in cui entrerebbe pure in vigore la nuova concessione radiotelevisiva. Inoltre il Consiglio federale ha deciso di mettere in consultazione l’innalzamento della soglia del fatturato delle aziende soggette al pagamento della tassa di ricezione: dall’attuale mezzo milione si andrebbe, già dal 2027, a una cifra di affari minima di un milione e duecentomila franchi. Così l’Esecutivo tenta quindi di “spaccare” il fronte degli iniziativisti, ma senza un grande successo stando alle prime reazioni.
Parlavamo del tempo. Sarà infatti l’evoluzione dell’economia nei prossimi anni a condizionare le sorti del canone Ssr. È una questione di contesto: di fronte alla crisi post-pandemica e bellica che ha visto ricomparire il fenomeno inflazionistico (con la conseguente erosione del potere di acquisto della popolazione), ci si è lasciati convincere che la via di uscita a livello macroeconomico stia nel ridurre la spesa. L’austerità va di moda tra gli Stati e pure tra i Cantoni (vedi il Ticino) e innesca un circolo vizioso in cui finisce dentro pure il normale cittadino, per il quale – per ovvi motivi di sopravvivenza – qualsiasi “divinità” diventa sacrificabile sull’altare del risparmio. Servizio pubblico compreso. Ecco perché a oggi l’iniziativa per i 200 franchi avrebbe buone chance. Con tutte le conseguenze del caso, anche gravi, in termini occupazionali e di indebolimento della vita democratica e culturale del Paese.
Fatto sta che di questi tempi c’è nella società una certa propensione, abilmente sfruttata dalla destra populista, a voler punire i giganti. Il 14 febbraio dell’anno scorso, per esempio, il pacchetto di aiuti ai media privati è stato bocciato sostanzialmente perché – si è detto – andava a favore dei grandi gruppi mediatici (uno dei quali – Ch media – proprio ieri ha annunciato il taglio di 150 posti di lavoro) e non solo delle piccole testate regionali. Sarebbe dunque auspicabile che quella sconfitta riuscisse a portare un qualche insegnamento (difficile a Berna, speriamo almeno a Comano): immedesimarsi con la realtà circostante appare l’unico modo di garantirsi il proprio spazio vitale. Ciò implica però dimenticarsi di presunti e inadeguati piedistalli. Il rischio altrimenti è quello di rimanere isolati e incapaci di suonare la propria musica. Chiedete sennò al Persecutore.