Chi tenta oggi una giustificazione storica delle azioni di Hamas è uno sciagurato: i torti e le ragioni stanno da una parte e dall’altra
Li abbiamo visti: calpestati, fatti a pezzi, trucidati, culle insanguinate, bambini esibiti con beffardi e osceni gesti amorevoli e c’è chi balla sui corpi martoriati. Primo Levi ci aveva avvertiti: può ancora accadere perché il mondo è cambiato ma il peggio dell’uomo è sempre in agguato. Dopo gli orrori di Bucha (e tanti altri lasciati nell’ombra), ecco l’eccidio del 7 ottobre.
Al cospetto delle scene d’odio, del massacro indiscriminato di civili inermi mi sono posto la domanda che mi posi a proposito della Shoah: com’è potuto accadere che esseri umani si siano macchiati di tanta efferatezza? Certo, ci furono mostri a pianificare lo sterminio degli ebrei (ce lo dice Joel E. Demsdale, Nella mente dei criminali nazisti, Roma, 2016), ma furono persone comuni a eseguire (ce lo mostra Daniel Jonah Goldagen, I volonterosi carnefici di Hitler, Milano, 2016). Era una persona normale il poliziotto che afferrò il bambino ebreo di cinque anni, gli sparò in testa e poi continuò tranquillamente a conversare con il collega infastidito per l’interruzione; era una persona normale il soldato tedesco che si fece fotografare mentre puntava il fucile e sparava contro una madre e il suo bambino; era una persona normale il medico che insegnò ai soldati a perfezionare le tecniche dello sterminio indicando in quale parte del corpo conveniva sparare per sbrigarsi in fretta. Oggi è successo di nuovo: mostri accecati dal fanatismo religioso hanno pianificato lo sterminio, e uomini ordinari – fra di loro, presumo, padri di famiglia – trasformati in assassini efferati e compiaciuti. Come è potuto accadere?
La risposta al quesito la diede nel 1942 il riservista che collaborò zelante al genocidio: “La categoria di essere umano – precisò convinto – a loro (gli ebrei) non (è) applicabile”. È il terribile effetto della politica dell’odio, del “dentro e fuori”, del “noi e loro”. E loro, “gli altri”, non hanno identità personale, non hanno diritti, non sono individui, ma anonimi aggregati, non sono persone ma oggetti da buttare nel mucchio. C’è insomma un processo di deumanizzazione degli avversari che li spoglia dei sentimenti e che li fa oggetti senz’anima, non-persone: è un processo, quello della deumanizzazione che consente di sopprimere le emozioni e la compassione nei confronti degli altri ed è il presupposto di ogni sterminio.
La deumanizzazione è l’atto mentale che consente l’esecuzione delle peggiori atrocità (ne ha scritto Chiara Volpato, La deumanizzazione, Bari, 2011). È un veleno assai pericoloso che si è insinuato anche nella nostra politica della quotidianità nei confronti degli immigrati. Vi ricordate “il carico residuale”, il “materiale difficilmente assimilabile”, gli “scarti”, il “buttiamoli tutti fuori”, il “buon appetito ai pesci”?
In certi ambienti di una destra in grande spolvero, è l’indecenza della normalità, ed è il linguaggio della politica: si aggiunge alla grande piaga del nostro tempo, l’indifferenza, che ci consente di indignarci ma poi, dopo un po’, di guardare altrove e di non accorgerci che l’universalità dei diritti dovrebbe valere per tutti. Non vale per i migranti, che troppe volte trattiamo con l’odioso paternalismo degli esseri superiori verso non-persone, azzerate come individui e cittadini.
La nostra indifferenza, condita di massicce dosi di diffidenza e pregiudizi di ogni sorta, ha accompagnato anche la vita del popolo palestinese che, da decenni, fa vita da profughi a cui è negata la dignità di una terra.
Diciamolo subito. Chi tenta oggi, e sono in parecchi, una giustificazione storica delle azioni di Hamas è uno sciagurato. Hamas, lo dice lo statuto dell’organizzazione, anno 1988, vuole lo Stato islamico che niente ha a che vedere con la causa palestinese, che è un’altra cosa. La distinzione è necessaria e doverosa.
Nella lunga contesa fra israeliani e palestinesi, i torti e le ragioni stanno da una parte e dall’altra: lo sapeva Shimon Peres che aveva confessato che “i palestinesi sono il nostro peccato originale” come a dire che c’è un problema da risolvere insieme, e la ricerca di un reciproco riconoscimento politico e territoriale è comunque possibile. Ma dopo Rabin e Peres, premi Nobel per la pace, è arrivato lui, Netanyahu, e con lui il nazionalismo religioso che di uno Stato palestinese non vuol sentir parlare e le risoluzioni dell’Onu sono considerate carta straccia.
Il sociologo Edgar Morin, ultracentenario che ha visto il meglio e il peggio del secolo trascorso, ci dice che la nostra missione è quelle di respingere l’odio e di ripristinare un barlume di comprensione reciproca. È possibile? Forse – ci dice un altro grande intellettuale, lo storico Yuval Noah Harari – a patto che si consideri passato il passato e si apra un nuovo percorso di speranza. È possibile, certo, ma bisognerebbe che tutti gli Stati di buona volontà, occidentali e arabi, si diano da fare. Una condizione: via gli efferati stragisti di Hamas e via Netanyahu che ha chiuso colpevolmente le porte a un futuro migliore.
È necessario contrastare Hamas, non se ne può fare a meno, ma che Israele non dimentichi: seppure privo di una costituzione unitaria, è uno Stato democratico, uno Stato di diritto tenuto a comportamenti che lo qualifichino come tale. La violenza cieca che colpisce tutti, colpevoli e innocenti, non è ammessa.