Nel 1999 incontrai Ahmed Yassin, padre spirituale e fondatore del movimento terroristico che lo scorso 7 ottobre ha colpito in modo devastante Israele
Una villetta modesta, non priva di un côté tecnologico, almeno per l’epoca, visto che nella stanza in cui venni fatto accomodare insieme ad altri giornalisti svizzeri sferragliavano diverse telescriventi. Fu lì, a Gaza, che nell’autunno del 1999 incontrai Ahmed Yassin, padre spirituale e fondatore di Hamas, il movimento terroristico che lo scorso 7 ottobre ha colpito in modo devastante Israele provocando un numero elevatissimo di vittime civili. Yassin, formatosi politicamente in Egitto presso i Fratelli Musulmani, quando ci ricevette era stato rilasciato da non molto da un carcere israeliano. Fin da ragazzo era costretto su di una sedia a rotelle, poiché reso tetraplegico da un incidente sportivo. Cinque anni dopo quel nostro incontro, nel marzo del 2004, venne ucciso da un missile israeliano mentre stava uscendo da una moschea. Profondamente antisionista, dalla sua voce flebile non mi ricordo fossero uscite minacce sanguinarie nei confronti dello Stato ebraico. Stato che tuttavia si rifiutava di riconoscere, ritenendo la Palestina un “bene musulmano” inalienabile.
Allora nella Striscia governava l’Olp, capo del governo israeliano era il laburista Ehud Barak il quale, di lì a poco con la regia di Bill Clinton, si disse disposto a offrire a Yasser Arafat uno Stato palestinese nella Cisgiordania e a Gaza, con capitale Gerusalemme Est. Non se ne fece nulla, l’Olp si indebolì, anche in quanto preda della corruzione, mentre a Gaza cresceva la popolarità di Hamas. I cui militanti erano stati iniziati al terrorismo da gruppi radicali libanesi. Negli anni 90 cominciarono con gli attentati anti-israeliani, nonostante Yassin si dimostrasse disposto ad ammorbidire le proprie posizioni e a sottoscrivere una tregua di lunga durata con Israele, a condizione che lo Stato ebraico abbandonasse i territori occupati nel 1967 durante la Guerra dei sei giorni. Una condizione che sapeva fosse inaccettabile.
Nel frattempo i palestinesi, esasperati dall’occupazione, diedero vita alla Prima Intifada: nel 2004 morì Arafat e nel 2005 l’allora premier israeliano, Ariel Sharon, smantellò gli insediamenti di coloni a Gaza. L’anno successivo Hamas vinse, sorprendentemente, le elezioni legislative nella Striscia e si convinse che quel successo fosse la dimostrazione che la lotta armata pagava più del dialogo.
L’affermazione elettorale di Hamas pose il movimento jihadista al centro della scena politica palestinese, confinando il successore di Arafat, Mahmoud Abbas, nella più borghese Ramallah, a due passi da Gerusalemme, sostanzialmente sottomesso al governo israeliano. A Gaza, ormai trasformata in una gigantesca township simile a quelle del Sudafrica dei Boeri, il partito della guerra; a Ramallah quello della trattativa. Le due anime della resistenza palestinese diedero a un certo punto vita a una vera e propria guerra intestina, con un bilancio di 600 morti.
Isolato dalla comunità internazionale, che l’ha messo al bando come organizzazione terroristica, Hamas può contare ormai solo sull’Iran, su quel che resta della Siria e sul movimento libanese degli Hezbollah. Ma è tale l’odio nei confronti di Israele che, capitalizzando l’esperienza di quei pochi alleati, è riuscito a infliggergli un colpo tremendo.