Quasi nessuno sa più chiedere scusa: dai baristi di Como alle prese con i toast alle editorialiste che usano esempi sbagliati, è sempre colpa degli altri
Siamo cresciuti immersi nel “non sei tu, sono io”. Abbiamo lasciato e siamo stati lasciati con questa formula magica, che ovviamente vuol dire tutto e non vuol dire nulla. Ma almeno era una specie di vaga assunzione di responsabilità.
Negli anni siamo passati poi attraverso l’escamotage della colpa esterna, dell’evento fuori dal proprio controllo, la cui summa è riassunta nell’iperbolico tentativo di giustificarsi di John Belushi in “The Blues Brothers” (“la gomma a terra, il terremoto, le cavallette…”).
Da lì siamo finiti nel mondo in cui, come tanti piccoli Fonzie, le scuse sono quasi state sbianchettate dal vocabolario. Ma mica per questioni di orgoglio – o ancor peggio, per gli uomini, di virilità (mai presunta virtù fu più sopravvalutata) –, ma perché dal non ammettere l’errore siamo passati direttamente a non riconoscerlo.
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Henry Winkler e una statua di Fonzie per cui l’autore dovrebbe chiedere scusa
Chiaro che non vale sempre per tutto e per tutti. C’è chi sa ancora chiedere scusa. Tra questi però non figurano né l’incauto commerciante di Como che taglia i toast in due per due euro extra né Concita De Gregorio, l’editorialista di Repubblica che taglia tutto con l’accetta pensando di avere tra le mani un bisturi di precisione.
Il primo, contestato da una coppia che si era ritrovata l’ingiustificato rincaro sullo scontrino, non è arretrato nemmeno davanti allo sdegno generale (ma c’è chi l’ha difeso, sono quelli che fanno o farebbero come lui, anzi c’è già un emulo a Finale Ligure): “Le richieste supplementari hanno un costo. Se un cliente chiede due porzioni di un toast devo usare due piattini, due tovaglioli e andare al tavolo impegnando due mani”. Addirittura due mani. Povero. Ovviamente, tenendo famiglia, ha poi detto che è disponibile a parlarne e “magari” a offrire una colazione. Magari.
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Lo scontrino del toast tagliato a metà per due euro extra
Invece Concita è andata oltre, seguendo quella tendenza all’harakiri che va di moda a Repubblica dopo il “J’accuse” di un esterrefatto Alain Elkann eccezionalmente uscito dalla bambagia e convinto di avere condiviso un vagone di prima classe per Foggia con dei “lanzichenecchi” solo perché i giovani a bordo indossavano pantaloncini e t-shirt e parlavano di calcio e ragazze invece di leggere Proust o esibire ghette e monocoli. Classismo in purezza.
La direzione di Repubblica ha ignorato il comunicato sindacale dei suoi giornalisti (indignati), pubblicato una lettera a difesa di Elkann che sembra scritta ai tempi di Proust e firmata da un emerito professore che non ha mai vissuto nel mondo reale, infine mandato un inviato con l’elmetto sul Roma-Foggia, confondendo la tratta con la Baghdad-Mosul. Scuse pervenute: nessuna.
De Gregorio ha fatto perfino peggio. Per dare dei “decerebrati” ad alcuni influencer li ha paragonati ai disabili, quelli veri, con deficit cognitivi, tirando in ballo anche le insegnanti di sostegno, che a scuola “dicevano loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca”. Quando – il giorno dopo – tanti le fanno notare che non si denigrano categorie che già devono sopportare abbastanza fardelli senza che lei aggiunga altri pesi, De Gregorio scrive un birignao che sembrano delle scuse, salvo poi fare inversione a U con un frullato di insofferenza al politicamente corretto, invocazione del contesto, appello agli intellettuali ed esempi tirati per i capelli. Ecco: non solo non ha chiesto scusa, si è pure offesa. Va a finire che dobbiamo chiederle scusa noi.
Insomma, come De Gregori (senza la o), che in “Atlantide” mandava a dire all’amata “Ditele che la perdono per averla tradita”, non è De Gregorio, siamo noi. Non sono io, sei tu.
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