IL COMMENTO

Dal reddito di cittadinanza al salario minimo

In Italia la situazione di molti lavoratori sottopagati rende necessarie nuove soluzioni, a partire dall’istituzione di un minimo retributivo nazionale

In sintesi:
  • Potrebbe essere la destra di Meloni a fare questo passo
  • L’alternativa è l’esplosione del malessere sociale
(Keystone)
3 agosto 2023
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Nei giorni scorsi, a Genova, un ragazzo egiziano di 18 anni che lavorava come parrucchiere in un salone gestito da due connazionali è stato prima ucciso, poi smembrato, poiché aveva deciso di andare a lavorare in un altro salone per guadagnare di più. Più dei 1’200 euro mensili che gli corrispondevano coloro che lo hanno ammazzato in modo tanto barbaro e per una ragione così banale. Basta questo sconvolgente episodio, unito alle paghe da fame corrisposte agli extracomunitari impiegati nella raccolta di pomodori, per dimostrare che in Italia alcuni correttivi al mercato del lavoro, quali il salario minimo, sono ormai inderogabili.

Già, il salario minimo! Dei 27 Stati membri dell’Ue sono appena cinque, tra i quali figura appunto l’Italia, i Paesi privi di un salario minimo nazionale. Gli altri quattro sono Danimarca, Austria, Svezia e Finlandia. Tutte nazioni nelle quali il salario minimo è tutelato da accordi collettivi, negoziati con i sindacati. Questo significa che se non fai parte di un sindacato, verosimilmente se non sei impiegato in un settore che necessita di un rapporto stretto con le organizzazioni che tutelano i lavoratori, puoi ritrovarti alla mercé di imprenditori senza scrupoli. È il caso – apparso di recente sul Corriere della Sera – di un’esperta d’arte che, dopo una lunga e qualificata esperienza a Londra, ha deciso di rientrare in patria, venendo assunta da una prestigiosa galleria di Milano per 1’120 euro mensili.

La premier Giorgia Meloni, cui non difetta la capacità di sentire il polso dei propri cittadini, ha lasciato intendere che prima o poi una legge sul salario minimo dovrà essere introdotta. Anche perché, stando ai sondaggi, lo gradirebbe pure il 70% del suo elettorato. Certo, l’Italia non può permettersi i 1’981 euro della Germania, ma neppure abbassarsi ai 717 della Bulgaria. Altrimenti tanto valeva mantenere il reddito di cittadinanza. Che si sarà sicuramente prestato a degli abusi, ma che ha evitato, nelle regioni con una povertà diffusa quali quelle del Mezzogiorno, che esplodesse una rivolta sociale.

D’altronde da quelle parti, con un’astuzia che i vari Di Maio e Conte si sognano, la buona vecchia Democrazia Cristiana aveva messo in piedi dei carrozzoni industriali il cui unico scopo era quello di erogare stipendi a coloro che non erano emigrati al Nord per trovare un lavoro. Pensiamo all’Alfasud di Pomigliano d’Arco, al gigantesco investimento nel porto calabrese di Gioia Tauro, o allo stabilimento Fiat di Termini Imerese, in Sicilia. Insomma, l’impressione è che, anche spinta dallo sciopero generale indetto dai sindacati in autunno, alla fine Meloni finirà per cedere sul salario minimo, trovando una formula che non irriti più di tanto Confindustria e che, pur tra qualche borbottio di prammatica, accontenti pure i rappresentanti sindacali. Oltretutto le verrebbe dato atto di un passo avanti nelle relazioni tra partner sociali, che finora la stessa sinistra, che in Italia ha governato a lungo, non è mai riuscita a portare a termine. Chiudendo purtroppo gli occhi su formule a uso e consumo del padronato, quali le famigerate partite Iva. D’altronde se il salario minimo è stato adottato dal Ticino a trazione leghista, perché la stessa cosa non dovrebbe verificarsi nell’Italia della triade Meloni, Salvini, Tajani?