Come un tempo tra la Lega dei Ticinesi e quella lombarda, ora sono i sovranisti di Meloni, Morawiecki e Orbán a scontrarsi tra simili
Era il periodo della maggiore tensione fra la Regione Lombardia, a guida leghista, e il Canton Ticino, governo a maggioranza leghista. L’aumento costante dei frontalieri, il problema della loro tassazione, la presunta concorrenza sleale dei padroncini italiani a nord di Chiasso, la denunciata mancanza di reciprocità che sfavoriva i “nostri” imprenditori: era quella lista di situazioni e incomprensioni che caratterizzavano quel periodo. A Milano incontrai Roberto Maroni, allora presidente regionale lombardo (ex sindaco di Varese, uno della prima ora a fianco di Umberto Bossi, anche segretario pro tempore dei “lumbard” nonché ministro dell’Interno nel centrodestra berlusconiano), che mi esprimeva il suo disappunto e anche un po’ la sua stizza per il contrasto fra i due leghismi transfrontalieri. Allora me ne uscii con una battuta: «Ma quindi è vero che si è sempre terroni di qualcun altro…». Non la prese benissimo, e troncò l’intervista. Già, perché quando i sovranismi entrano in collisione, quando prevale l’aspetto identitario-territoriale, quando è il proprio tornaconto a pesare più di ogni altra considerazione, quando conseguentemente il margine di trattativa si assottiglia di brutto, ebbene le cose si complicano parecchio.
L’episodio mi è tornato in mente di fronte al teatrino politico offerto la scorsa settimana a Bruxelles. Prima una Giorgia Meloni “trionfante” (che furbescamente ha messo il silenziatore all’impossibile pretesa di blocchi navali nel Mediterraneo) annuncia uno storico accordo a livello europeo sui migranti (naturalmente “illegali”); per una volta, finalmente, l’intesa in effetti c’è stata: nella sostanza prevede uno strappo all’obsoleto Trattato di Dublino, tale che ora i disperati che riescono a sbarcare in Italia o in altri porti verrebbero equamente ridistribuiti nei Paesi dell’Ue; la sanzione per i membri che non ottemperano è di 20mila euro a rifugiato respinto, il prezzo per il loro sostentamento e, quando possibile, per il loro rimpatrio nell’inferno da cui provengono.
Tutti d’accordo? Naturalmente no. E chi non lo è? Gli amiconi della stessa “signora d’Italia”: il sovranista polacco Mateusz Morawiecki e quello ungherese Viktor Orbán, il cui modello ideologico e assai poco europeista (tranne quando si tratta d’incassare generosi sussidi da Bruxelles) ispira il governo di destra-destra da mesi a Palazzo Chigi. Una decisione a carattere sovranista, quella di Varsavia e Budapest, in netto contrasto con le speranze dell’alleata di Roma. Come reagisce la Meloni? Tenta una sua personale mediazione, da cui però esce a mani vuote. Il suo serafico commento allo smacco: “Non sono mai delusa da chi difende l’interesse nazionale”. E pazienza se gli amici sovranisti ti fanno lo sgambetto, sostenendo impropriamente “guardate come bruciano le periferie francesi”.
Ora immaginatevi un’Unione europea segmentata e dominata da governi nazional-populisti. È evidente che non avrebbe più senso, sostanza né futuro. Prevalendo (ancor più rispetto agli attuali livelli) gli interessi nazionali, si sarebbero per esempio trovate le intese comuni sulla strategia sanitaria anti-Covid, e ancor più sull’inedito massiccio indebitamento condiviso dai 27 (alla base del “Next Generation Eu” per il collettivo rilancio economico), grazie al quale 191 miliardi di euro, in buona parte a fondo perso, pioveranno proprio sull’Italia?
Già, il sovranismo è anche questo. Presumere o illudersi di non essere mai il ‘terrone’ di qualcun altro.