Il golpe sospeso di Evgenij Prigozhin ha messo pesantemente a nudo le debolezze di Putin e le fragilità delle istituzioni
Nella mentalità russa, come racconta magistralmente ne ‘Il mago del Cremlino’ il politologo Giuliano da Empoli, nulla è più squalificante di un potere flaccido, di leadership flosce che non hanno ben salde le redini dello Stato. Quasi fosse nel Dna collettivo, l’opinione pubblica ondeggia tra richiesta di autoritarismo virile e le forme più estreme di potere tirannico. Ne aveva fatto le spese Michail Gorbaciov, artefice incompreso dell’unica grande primavera democratica nella storia del Paese.
È quanto si intende con il concetto di verticalità del potere ed è quanto ha finora incarnato alla perfezione la figura di Vladimir Putin. Sul proscenio del più alfa dei maschi russi, ha rivendicato il retaggio zarista e staliniano corredandolo di elementi coreografici in cui appariva impettito, lo sguardo indomito cavalcando a torso nudo un purosangue o nelle vesti di judoka che con un abile colpo di anca metteva a terra qualche comparsa. Il golpe sospeso di Evgenij Prigozhin, ha messo pesantemente a nudo le sue debolezze e le fragilità delle istituzioni.
Non solo: la narrazione con la quale il capo delle Brigate Wagner ha giustificato il suo putsch prima del dietrofront («Non c’era nessuna minaccia della Nato, la denazificazione era solo un pretesto fasullo») corrisponde per filo e per segno a quella degli occidentali. Brutto colpo. In meno di 24 ore, lo Zar si è ridotto a un Napoleone da carnevale, umiliato su tutti i fronti da un ex venditore di salsicce che ha conquistato senza colpo ferire la base di Rostov sul Don, proprio quella da cui vengono dirette le operazioni belliche in Ucraina.
Nessuna resistenza da parte dei pretoriani della Rosgvardia, dei militari o dei servizi di sicurezza dell’Fsb (ex Kgb). Lo Zar costretto a far capo agli ultimi fedelissimi, i ceceni dell’islamista tagliagole Ramzan Kadyrov. C’è di che far rivoltare nella tomba i suoi mentori, padri del panslavismo, teorici della purezza etnica della grande Russia Cristiana. I miliziani sono avanzati indisturbati e spavaldi verso la capitale, quasi marciassero sulle note trionfali della Valchiria, prima di essere fermati per ordine dello stesso Prigozhin a 200 chilometri da Mosca in seguito alla mediazione del bielorusso Lukashenko. Altra insopportabile umiliazione: essere salvati da quello che fino al giorno prima era solo un piccolo despota, il suo portaborse a Minsk, un travet ormai inesistente sulla scena internazionale.
La tinta plumbea, lo sguardo che grondava feroce impotenza, la comunicazione intimidatoria, Putin ha denunciato una «pugnalata alla schiena»; ma costretto a una mortificazione senza precedenti ha dovuto garantire su due piedi amnistia e immunità ai golpisti. Altro che il «crimine non rimarrà impunito». Non si conoscono i termini del patteggiamento ma è tuttavia probabile che contempli un rimpasto nelle alte sfere, forse la defenestrazione dei due nemici giurati di Prigozhin: il ministro della Difesa Shoigu e il capo di Stato maggiore Gerasimov.
Nessun osservatore competente si avventura troppo in previsioni sulle ripercussioni che l’inatteso ed effimero golpe avrà sul prosieguo della guerra. Di certo è che Mosca appare fortemente indebolita sia internamente sia esternamente, soprattutto agli occhi della Cina, la cui scaltra realpolitik non mancherà di prendere atto che l’autocrate alleato di colpo ha assunto sembianze politicamente connotate con un volatile: quelle della classica anatra zoppa.