Taiwan resta la priorità per Pechino, la visita del segretario di Stato Blinken dimostra che Usa e Occidente dovranno sempre fare i conti con la Cina
Come prima visita fuori Washington, il nuovo ambasciatore cinese Xi Feng, scelse il tranquillo villaggio di Kent nel Connecticut, dove risiede Henry Kissinger. I rappresentanti di Pechino lo consultano spesso, traendone conforto anche nelle fasi più turbolente dei rapporti con la Casa Bianca. Comprensibile.
Non si tratta solo dell’uomo, fresco ultracentenario, che mezzo secolo fa si adoperò per abbattere il muro di incomunicabilità fra le due nazioni, portando Richard Nixon nella “Città proibita” per lo storico incontro con Mao; Kissinger è anche il teorico della stabilità degli imperi (non importa di quale natura interna) come architrave della stabilità internazionale. Piace dunque sia a Mosca sia a Pechino.
Di recente, lo stesso Kissinger ha ricordato la risposta che gli diede Mao sul problema di Taiwan: il “grande timoniere” definì l’isola ribelle il covo di una “banda di fascisti” (come Putin sull’Ucraina), che doveva tornare alla madre patria, ma aggiunse “noi possiamo pazientare anche un secolo”. Accerchia e aspetta, insegnava lo stratega Sun Tsu.
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Henry Kissinger con Mao
Ma la Cina non ha dovuto aspettare tanto. Le sono bastati cinque decenni per affermarsi economicamente e politicamente sul palcoscenico mondiale. E Taiwan è ormai definita una “priorità” da Xi Jinping, che ieri lo ha ripetuto ad Anthony Blinken, ministro degli esteri di Biden, primo titolare della politica estera americana a essere ricevuto nella Cina popolare dopo cinque anni.
Dall’inviato statunitense non ci si aspettava certo l’impossibile missione di porre fine alla “guerra fredda” Washington-Pechino. Si trattava di riavviare il dialogo, e individuare gli strumenti per evitare un pericoloso deragliamento di rapporti così fragilizzati: non poco in tempi di guerra ucraina e di “amicizia senza limiti” fra Pechino e Mosca.
Gli anni Settanta sono lontani, e Blinken non è Kissinger, ma il fatto è che a Washington aumentano le voci che reputano necessario rivedere, o quantomeno attenuare (anche su timida sollecitazione europea), la dottrina del contrasto alla Cina come “sfidante sistemico dell’Occidente”. Pensando non solo al ruolo che l’Impero di Mezzo può avere nella ricerca di un compromesso per porre fine al conflitto nel cuore dell’Europa. Ma anche, e forse di più, immaginando l’assetto mondiale dell’incerto dopo-guerra.
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Militari di Taiwan a Taipei
Così, l’autorevole Charles Kupchan, della Georgetown University, ammonisce che fu relativamente facile vincere la Guerra fredda contro l’Urss, implosa per debolezza propria; ma con la Cina sarebbe decisamente più difficile e rischioso. Conclusione: “Gli americani dovranno fare un salto di immaginazione politica per poter coesistere con una grande potenza ritenuta minacciosa e in contrasto con l’impegno messianico a diffondere la democrazia; ma l’alternativa è una inesauribile frattura geo-politica e un disordine globale sempre più profondo”. E ci saremmo dentro proprio tutti.