La ricostruzione del Financial times dimostra come, settimana scorsa, ci fosse in gioco molto più che il destino della seconda banca svizzera
Al Bernerhof tutte le luci sono spente, tranne quelle dell’ufficio della ‘ministra’ delle Finanze Karin Keller-Sutter. Sono quasi le 23.00 di mercoledì 15 marzo. Alcune ore prima la ‘troika’ elvetica (Consiglio federale, Banca Nazionale e Finma) ha incontrato in videoconferenza il presidente del Credit Suisse Axel Lehmann, che si trovava in Arabia Saudita, e l’amministratore delegato Ulrich Körner. Nella stessa riunione in cui è stato autorizzato il backstop da 50 miliardi di franchi – comunicato ai media il giorno dopo –, Keller-Sutter, Thomas Jordan (Bns) e Marlene Amstad (Finma) hanno pure trasmesso un chiaro messaggio ai vertici della banca: “Farete la fusione con Ubs e lo annunceremo domenica sera. Non ci sono alternative”.
Col passare dei giorni emergono dei retroscena piuttosto inquietanti sulle frenetiche negoziazioni che hanno portato al matrimonio forzato tra Ubs e Credit Suisse. Retroscena ricostruiti minuziosamente dal Financial Times (Ft) e che descrivono come, tra mercoledì e domenica della scorsa settimana, ci fosse in gioco molto più che il destino del secondo istituto bancario della Svizzera. Ci sono state infatti diverse comunicazioni tra Janet Yellen, segretaria al Tesoro Usa, e Kks. Le preoccupazioni di Washington riguardavano la stabilità del sistema finanziario internazionale, già messa a dura prova con il fallimento della Silicon Valley Bank.
Anche i sauditi hanno giocato le loro carte: prima con il ‘niet’ di Ammar Al Khudairy, presidente della Saudi National Bank, all’ipotesi di investire altro denaro in Credit Suisse. Poi, messi di fronte alla prospettiva di un’acquisizione da parte di Ubs, con il reclamo sporto alle autorità elvetiche per conservare, almeno, il diritto di voto. Diritto di voto che è stato negato dalla troika, suscitando l’ira dei sauditi, ira che è stata poi placata attraverso l’inusuale sovvertimento dell’ordine tra azionisti e obbligazionisti decisa dal governo: una perdita da 16 miliardi di franchi imposta dalle autorità sulle obbligazioni At1, “sacrificati – scrive il Ft – in modo che il Consiglio federale potesse salvare la faccia con i detentori di azioni internazionali”.
Se però si lasciano da parte gli intrighi della negoziazione, ciò che resta è una radiografia che mostra come la politica sia intervenuta ancora una volta in ritardo, forzando al massimo le leggi, per cercare di contenere i danni di un incendio ormai divampato. E questo non può che farci riflettere sulla radice del problema. La crisi del Credit Suisse obbedisce, al di là dei molti tecnicismi, a una dinamica intrinseca al capitalismo finanziario: la ricerca permanente della massimizzazione del profitto attraverso un circuito che non contempla il passaggio dall’economia reale. E in cui la redditività è direttamente proporzionale al rischio. Se poi si aggiunge il disallineamento strutturale tra il ritmo di riproduzione del capitale (in particolare, appunto, sui mercati finanziari) e la limitata capacità della società di contribuire – tramite i consumi – alla realizzazione del plusvalore, ecco che il cocktail per ricorrenti ‘crac’ bancari è servito.
Di fronte a un tale scenario è lecito che le istituzioni politiche si interroghino su cosa non ha funzionato. A maggior ragione ora che ci si ritrova confrontati con una banca-mostro “troppo grande per essere salvata”. Ma si parla comunque di cerotti. Finché non ci sarà un vero cambio di paradigma, ciò che è successo con Credit Suisse molto probabilmente potrà succedere ancora.