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Silicon Valley Bank, il crollo e il déjà vu

C’è da chiedersi se il fallimento della banca californiana comporterà, come 15 anni fa, un effetto domino devastante per l’economia mondiale

In sintesi:
  • Joe Biden ha spergiurato che ‘il sistema bancario americano è sicuro’
  • Tra gli operatori di tutto il mondo si è comunque diffusa la paura di una nuova grave crisi finanziaria
  • L’azione di Credit Suisse è arrivata a perdere fino al 14%
(Keystone)
14 marzo 2023
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A quasi quindici anni dal fallimento della Lehman Brothers, all’origine di una crisi finanziaria che creò i presupposti di un dramma simile alla Grande depressione degli anni ’30, il crollo di un’altra banca statunitense, la californiana Silicon Valley Bank, sta scuotendo i mercati mondiali e suscitando comprensibile preoccupazione tra i risparmiatori. I contesti delle due vicende, va detto, sono diversi. Innanzitutto Wall Street, nell’immaginario collettivo, è la capitale della finanza speculativa, ben diversa dalla California della ‘New Economy’, dove pure non mancano personaggi alla Gordon Gekko quali Mark Zuckerberg, Elon Musk e Jeff Bezos.

Il 15 settembre 2008 Lehman Brothers, nonostante appartenesse al novero degli istituti ‘too big to fail’, fallì sotto il peso di una montagna di mutui ipotecari inesigibili, concessi con grande leggerezza da affaristi senza scrupoli. Mentre la Silicon Valley Bank ha pagato la flessione dei titoli tecnologici e la decisione della Federal Reserve di aumentare i tassi di interesse per contrastare l’inflazione. Inoltre, l’amministrazione di George W. Bush, nel settembre del 2008 ormai agli sgoccioli, lasciò sulle spalle di Barack Obama, che venne eletto di lì a poco, il disastro conseguente al fallimento della grande banca newyorkese. Joe Biden, che quel disastro lo visse come vice di Obama e che intende farsi rieleggere, ha spergiurato che "il sistema bancario americano è sicuro" e ha promesso che tutti i depositi coinvolti nel fallimento verranno rimborsati.

Rassicurazioni che, tuttavia, non hanno impedito il diffondersi della paura di una nuova grave crisi finanziaria tra gli operatori di tutto il mondo, con le borse asiatiche ed europee tutte in rosso, in alcuni casi in profondo rosso, e con i titoli finanziari in picchiata. L’azione di Credit Suisse, già in crisi da tempo per la perdita stratosferica fatta segnare dall’istituto nel 2022, è arrivata a perdere fino al 14%, per poi riprendersi leggermente verso la fine delle contrattazioni. Parliamo, comunque, di un titolo che ieri ha toccato per l’ennesima volta il minimo storico, venendo quotato, a metà giornata, 2,12 franchi. Tanto per intenderci, un anno fa valeva 7,80 franchi: di conseguenza, in 12 mesi, ha perso quasi il 69% del suo valore. Contrariamente ad Ubs, imbottita come Lehman Brothers di titoli subprime e salvata dall’intervento della Confederazione, la situazione di Credit Suisse è più da ascriversi a una serie di errori del management, che hanno generato la sfiducia di molti clienti, facendo defluire dalla banca depositi per 110 miliardi di franchi.

Ecco, alla luce del fallimento di Silicon Valley Bank c’è da chiedersi se ciò comporterà, come quindici anni fa, un effetto domino dalle conseguenze devastanti per l’economia mondiale, coinvolgendo in particolare altre banche già in difficoltà. Tutto dipenderà dalla capacità dell’amministrazione Biden di convincere i mercati che, effettivamente, al di là del fallimento della banca californiana, il sistema bancario statunitense è sufficientemente attrezzato per circoscrivere l’infezione a quell’unico istituto. In caso contrario ci ritroveremo sulle montagne russe di un’altra crisi epocale, mentre usciamo con le ossa rotte da una pandemia che ha provocato 6 milioni di morti e con una guerra sempre più feroce nel cuore dell’Europa.

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