Certi savonarola del libero mercato chiedono disciplina e sacrifici solo ai poveracci. Per le banche, invece, ben vengano i salvataggi pubblici
"Non sento una vocina stridula!", esclamava l’Attila di Diego Abatantuono ogni volta che Fetuffo, barbaro petulante e inetto, veniva sconfitto dalla realtà e dalla sua stessa ambizione dopo aver coinvolto la tribù in tenzoni tragicomiche. La vocina stridula che non sentiamo – in questi giorni in cui il Credit Suisse ha rischiato di ‘dare il giro’ dopo decenni di gestione dissennata – è quella dei bravi liberisti di casa nostra. I quali, come Fetuffo, amano sì giocare a "testa di ferro" con la realtà, ma solo quando sanno di poter vincere facile. Sicché il pistolotto sul rimboccarsi le maniche, l’immarcescibile "coi soldi dei contribuenti non si scherza", l’alzati-e-cammina affidato al potere taumaturgico della libera impresa valgono solo per gli ultimi, i "nati per andare in assistenza" (come disse una volta un imprenditore particolarmente borioso, di quelli che confondono i baci della sorte col merito personale).
Quando invece si parla d’una grande banca che gioca a poker col destino dei risparmiatori – certa com’è di poter continuare a privatizzare i profitti e socializzare le perdite – ecco che dai Fetuffo del laissez-faire arriva solo silenzio. Perché se chiudi un bilancio pubblico con mezzo punto di deficit per scuole e aiuti sociali, apriti cielo. Se però la Banca nazionale svizzera – leggi: lo Stato – deve pompare nottetempo 50 miliardi di franchi nelle vene di banchieri male in arnese, ecco che improvvisamente nessuno trova più nulla da ridire, anzi, chi si preoccupa è un isterico.
È il libero mercato a due marce, bellezza. La responsabilità della sconfitta deve pagarla solo il pesciolino più piccolo, mentre per quelli con la pinna dorsale più affilata – già viziati dal mare di liquidità durante la lunga stagione dei tassi rasoterra – c’è sempre il salvagente pubblico: una sorta di Mastercard sciolinatissima, specie per chi poi ripaga certe voci bianche con poltrone, cattedre, gettoni di presenza, ricchi premi e cotillons. Tra i miracolati, ahinoi, si contano molti economisti; non si direbbe il caso di Marc Chesney, professore di matematica finanziaria all’Università di Zurigo, il quale ci ricorda oggi che "così è troppo comodo. Il management può correre grandi rischi e se gli va bene incassare premi e prebende, se invece gli va male ci pensa la cittadinanza".
Non che qua s’intenda rispondere al servo encomio col codardo oltraggio: solo chi fosse accecato da fregole di vendetta proletaria auspicherebbe il crack di una banca d’importanza sistemica. Anche perché, in caso di crollo, a finire sotto le macerie sarebbero soprattutto le persone al piano terra dell’edificio aziendale e sociale, e insieme a lavoro e pensioni, addio Schadenfreude. Il Credit Suisse va dunque salvato, ben venga il prestito in questo momento di panico globale, che a sua volta la dice lunga sulla presunta razionalità dell’homo oeconomicus.
Poi, però, occorrerà chiedersi una buona volta perché a certi bucanieri non s’impongano paletti un po’ più stretti sul piano della gestione del rischio e della ‘governance’ (altro termine caro ai nostri bocconiani da rigattiere). Magari ci domanderemo pure perché il feticcio del mercato che si autoregola – imponendo magicamente una disciplina in odore di santità – sia ancora incensato da mille turiboli, nonostante una spossante serie di storiche smentite.
D’altronde siamo sicuri che certi moralismi sulla responsabilità personale si presenteranno ancora, la prossima volta che a ficcarsi in un ginepraio sarà qualche poveraccio. E allora sì che la risentiremo, quella vocina stridula.