A vent’anni di distanza, le immagini di Abu Ghraib o di Guantanamo sono tra le ragioni alla base di una diffusa sfiducia nella politica estera americana
Ci sarebbe un bell’imbarazzo della scelta se dovessimo stabilire il podio delle più reboanti fake news dei nostri tempi. Quantitativamente il vincitore sarebbe senz’altro di gran lunga Donald Trump, qualitativamente la battaglia è più aperta tra innumerevoli protagonisti, dal semiserio Berlusconi (‘la nipote di Mubarak’) all’autocrate Putin (‘la Russia non parteciperà a un intervento militare in Siria’) o al suo braccio destro Lavrov (‘la notizia di un’imminente invasione dell’Ucraina è solo isteria occidentale’). Ma il premio per la miglior scenografia andrebbe senza ombra di dubbio a Colin Powell quando il 5 febbraio del 2003, tenendola tra il pollice e l’indice, mostrò ai membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu una fialetta contenente antrace. Il Segretario di Stato (che poi rimpiangerà la pietosa messinscena) con quel gesto preannunciava l’attacco americano all’Iraq del mese successivo. La madre di tutte le bugie, secondo cui l’Iraq aveva nascosto un arsenale di armi di distruzione di massa tale da mettere in pericolo le democrazie occidentali, fu alla base di una delle pagine più sconvolgenti della storia recente. Il bilancio della seconda guerra del Golfo è tra i più cupi. Certo, la guerra portò alla creazione di un’entità autonoma dei curdi iracheni (alleati degli americani) e all’emancipazione della maggioranza araba sciita, ma la destabilizzazione che seguì l’intervento fu devastante per tutta l’area mediorientale e – tramite terrorismo interposto – anche per l’Occidente. Paradossalmente Colin Powell era il meno convinto della necessità di attaccare l’Iraq di Saddam: rappresentava in effetti l’ala "realista" dell’amministrazione. Ma George W. Bush non aveva certamente ereditato dal padre le doti di stratega e si affidò ai falchi capitanati dal vice Dick Cheney e ai "neocon" trascinati dal sottosegretario alla difesa Paul Wolfowitz e al suo superiore Donald Rumsfeld, autori del celebre Pnac, il "progetto per un nuovo secolo" che prefigurava un futuro con gli Usa come unica potenza globale. L’attacco americano all’ex alleato (nella guerra Iran-Iraq) Saddam Hussein era del tutto pretestuoso: oltre alle presunte armi di distruzione di massa lo stravagante teorema di un’alleanza tra lo stesso rais e i terroristi di al-Qaida protagonisti degli attacchi dell’11 settembre. Saddam e tutto il partito ba’th erano in realtà tradizionalmente, seppur con la loro spietatezza (non esitarono a sterminare con gas tossici 5’000 curdi nel villaggio di Halabja) un baluardo contro l’estremismo islamico. Jacques Chirac non ebbe difficoltà a capire l’inganno, e così pure i tedeschi che rifiutarono, contrariamente al britannico Tony Blair, di seguire gli americani nell’insensata avventura bellica. La scriteriata guerra che si protrasse per due mesi, fu aggravata dalla decisione del plenipotenziario Paul Bremer di smantellare l’esercito iracheno: di colpo 400mila uomini si ritrovarono senza lavoro e salario. Fu quello il bacino da cui il tagliagole al-Zarqawi attinse per reclutare i terroristi di al-Qaida in Mesopotamia trasformatasi in seguito nell’Isis, responsabile d’inenarrabili atrocità in Siria, Iraq, Afghanistan e diversi Paesi africani. A vent’anni di distanza, le immagini di Abu Ghraib o di Guantanamo, il ricordo dell’inganno e dei "danni collaterali", sono verosimilmente tra le ragioni alla base di una persistente diffusa sfiducia nella politica estera americana.