I rituali del carnevale danno sfogo alla distruzione metaforica della parte meno integrata di sé. Resta da capire se il meccanismo funzioni ancora
Secondo tradizioni distinte, Carnevale sarebbe una sorta di personaggio allegorico, in genere burlesco, discendente di analoghe figure del mondo latino, che dopo essersi abbandonato per alcuni giorni ad ogni dissipatezza, si lascia serenamente mettere a morte, in genere attraverso il fuoco. Così, diciamo per interposto sacrificato, i partecipanti al rito si purificano, per inoltrarsi nei giorni della Quaresima e prepararsi alla rinascita della Pasqua. Al pari di ogni rituale partorito dalle culture umane, e in esse sedimentatosi, sai che anche quello del Carnevale vorrebbe mettere un certo ordine nella tua vita. Come dire, una volta allentati i freni inibitori, puoi ritornare in te, ritrovando un "equilibrio", per dirla in modo new age. O meglio, proprio perché hai dato libero sfogo alla parte meno integrata di te, per poi distruggerla metaforicamente, rientri con più facilità nella tua pelle. E riprendi con più leggerezza, sgravato del tuo primordiale fardello, la tua quotidianità.
In questi giorni, i dati sulle entrate in piazze e tendoni e le interminabili code per un piatto di risotto lasciano supporre che quell’insuperabile bisogno di libertà incarnato dal Carnevale sia più che mai presente, oltretutto potenziato da tre anni di attesa. Una forza lontana, profonda, dirompente, che agisce in te ed è in grado di accogliere come portatori di senso anche gli antiestetici e maleodoranti servizi igienici mobili, lo stillicidio di ubriachi molesti, le immancabili risse da canguri stracchi, i ricoveri per intossicazione da birra o bianco di infima qualità. Per dare seguito a un’antica, metodica – ritualizzata, appunto – rottura delle catene che di giorno in giorno ti stringono, puoi desiderare anche una città cinta da transenne di ferro e tappezzata da pannelli di compensato, incapsulata in percorsi obbligati, in cui alla libertà, come a tutto, si assegna un prezzo.
Eppure, nonostante lo spirito dei carri, che miracolosamente riafferma il potere della satira in una terra piuttosto povera di ironia, entrando e uscendo da tendine e tendoni un dubbio ti assale. Che di quello spirito fiammeggiante del Carnevale, fenomeno culturale capace di legittimare una volta l’anno la parte meno nobile di te, non resti altro che la manifestazione più vistosa di una fluida, vischiosa, inconsapevole quanto interminabile sottocultura dello sbrago da birra cattiva; condivisa, magari microfono alla mano, con ragazzini alle prime uscite.
Insomma, non più rito portatore di una forma di ordine nella tua esistenza ma espressione parossistica, ma socialmente autorizzata, della tua perpetua dissociazione: quella di esseri umani scissi e funzionali, integrati, infaticabili e produttivi, magari a forza di solitarie piste di coca in qualche bagno pubblico. Prima del feroce abbandono di ogni freno, del "rituale" azzeramento di sé del fine settimana, al quale sempre più ragazzini forniti di casse di birra e pasticche di vario tipo si sottopongono con metodo rigoroso. A tutta velocità, fra una scarica di adrenalina e l’altra, senza sentire e senza sentirsi, cinque giorni su sette; ognuno con la propria maschera, buona per un "like" o per non soccombere nella belluina competizione per un posto al sole, nella lotta per la sopravvivenza con cui molti ragazzi descrivono ciò che chiamiamo "vita".
È a questo punto che, fra una birra e un frizz, ti capita di non essere più sicuro se la maschera l’hai messa o te la sei tolta.