Le dimissioni gentili di Jacinda Ardern, un anno dopo l’addio precoce al tennis di Ashleigh Jacinta Barty, sono la risposta al mito dell’infaticabilità
Come il saggio Yoda riusciva a spostare oggetti con la forza del pensiero, Jacinda Ardern, 42 anni, primo ministro dimissionario della Nuova Zelanda per "mancanza di energie", è riuscita a ribaltare il tavolo con la forza della gentilezza. Anni di narrazioni tossiche sulla leadership urlante e guerreggiante, l’obbligo (im)morale di mostrarsi sempre all’altezza, il lavoro h24 a ogni costo, gli obiettivi da raggiungere sempre e comunque a scapito della salute, delle relazioni, della vita per come dovrebbe essere, spazzate via dalle parole di una donna mite abituata a guardare il mondo a testa in giù.
L’anno scorso, un’altra donna del "Down Under", la tennista australiana Ashleigh Jacinta Barty – a soli 25 anni – ha lasciato il tennis dopo aver vinto il suo terzo Slam (dopo Wimbledon e Roland Garros), quello di casa, a Melbourne. Avrebbe potuto inseguirne altri, a cominciare dall’Us Open che l’avrebbe fatta rientrare nella ristretta cerchia delle vincitrici di tutti e quattro i tornei più importanti. O semplicemente continuare a giocare incassando milioni in premi e sponsor.
Barty invece ha scelto le possibilità, l’opportunità di rinascere: non più tennista, ma altro. A differenza di molte sportive di successo - tenniste incluse - che si fermano perché incapaci di reggere allo stress o piegate dalla depressione (vista come un capriccio dai fanatici della leadership testosteronica), Barty ha lasciato per raggiunti limiti di felicità. Avrebbe potuto fare ancora di più, ma a lei non interessava. L’eterno ritorno dell’"è intelligente, ma non si applica" e del "talento sprecato", a cui però Barty ha ribaltato il significato: non ti applichi abbastanza perché sei distratta da altro, in cui magari sei meno bravo, ma t’incuriosisce di più; oppure hai un altro talento e vuoi andare vedere se c’è, dov’è, se ti riempie meglio la vita.
Ashleigh Jacinta Barty con il trofeo degli Australian Open 2022 (Keystone)
Lo stesso vale per Ardern, che ha impartito una gentile lezione a tutti quelli che non mollano mai un centimetro, che siano poltrone o potere, a quelli che non lasciano spazio a chi, nel frattempo, invecchia da eterno giovane che deve stare al suo posto, ovvero fuori dai giochi. Ha detto che ora che non sarà più premier ci sarà tempo per accompagnare la figlia a scuola, e tempo per sposarsi: ha messo il diritto di star bene davanti al dovere di apparire bene, mettendo in ridicolo tutti i maschi Alfa e i loro - rammolliti - seguaci.
Dire "non ce la faccio" è il più grande atto d’amore che si può fare nei confronti di noi stessi e di chi ci circonda; e se qualcuno lo vive come un segno di debolezza ha sbagliato a scegliere la propria cerchia e pure i conti con se stesso.
Ardern - durante il suo mandato - ha rimesso al centro la dignità, l’empatia, la gentilezza. E lo ha fatto con una fermezza che ha fatto da spina dorsale a tutte quelle parole, quelle qualità che sembrano incapaci di stare in piedi da sole. Ma non era così, era solo il mondo raccontato con il vocabolario e i modi di altri tempi, lunghi e polverosi quanto sbagliati.
Parlando agli studenti di Harvard, tenuto nel maggio scorso, Ardern aveva messo al centro del suo discorso la fragilità della democrazia, paragonandola a quelle delle relazioni, alle nostre. Più qualcosa è fragile, più è preziosa e bisogna prendersene cura, e non da soli. Lo si fa restando, finché si hanno energie, e poi – al momento giusto – anche andandosene.
Ardern ad Harvard (Keystone)