laR+ IL COMMENTO

L’arresto di un boss è sempre una vittoria

Complottismi e dietrologie sulla cattura di Matteo Messina Denaro sminuiscono il lavoro di chi quotidianamente rischia la vita per la lotta alla mafia

In sintesi:
  • Le fantasiose ipotesi sull'arresto del boss sono frutto di conoscenza superficiale del fenomeno mafioso
  • La mafia non segue le regole di una banda di delinquenti comuni: ha leggi e codici propri che vanno compresi per combatterla
(Keystone)
19 gennaio 2023
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L’arresto di Matteo Messina Denaro poteva essere un evento storico da celebrare in modo sereno e condiviso. E invece, i complottisti da tastiera da virologi prima e analisti di guerra poi, diventano ora criminologi. "Si è fatto prendere", "Era a casa sua, non me la bevo", "L’hanno mollato perché non comanda più". Ragionamenti in un certo senso, diciamolo, comprensibili, a patto di attribuire a Cosa Nostra gli schemi di pensiero e di azione di una banda criminale qualsiasi.

Niente di più sbagliato: la mafia non ragiona come la delinquenza comune, ha leggi, rituali, modi di agire peculiari e unici, che ne fanno un vero e proprio Stato parallelo. Il mafioso segue fino alla morte precisi e ancestrali codici di comportamento (un tempo si chiamavano "d’onore"), ciò che gli garantisce una delle fonti di potere principali: il rispetto degli affiliati, a partire dai sottoposti. L’idea che un boss come Messina Denaro "si faccia trovare" è estranea al pensiero mafioso: per Cosa Nostra lo Stato è e rimane il nemico numero uno da combattere con piombo e tritolo quando si è minacciati, o semplicemente da beffare per trent’anni vivendo sotto il naso degli investigatori, protetti da una fitta rete di coperture tessuta con il potere, il denaro o, se serve, con la paura. La mafia non cede allo Stato: "Farsi trovare" vuol dire arrendersi, perdere il rispetto degli altri. Come quando, per sottrarsi alla disumanità del carcere duro, si accetta di collaborare con la giustizia, si diventa "infami", togliendo ogni valore alla propria vita e a quella dei propri cari: chiedere a Tommaso Buscetta.

Improbabile pure l’idea del boss "scaricato" perché "non serve più": la mafia non cambia vertici come un’azienda cambia il Ceo, mandando in pensione il vecchio per far posto al nuovo. Luciano Liggio, "padre" criminale di Riina e Provenzano, e fedelissimo del boss storico di Corleone Michele Navarra, prese il potere uccidendo quest’ultimo. Il capomafia non va in pensione: muore, in genere, di piombo o in una cella, portando con sé i suoi turpi segreti. Il mafioso non svende "alle guardie" il "picciotto", men che meno il capo dei capi: nel sistema distorto di valori di Cosa Nostra, tradire vuol dire essere inaffidabili, se lo si fa una volta lo si potrebbe rifare. È uno sgarro, e gli sgarri si pagano: Salvo Lima, eurodeputato della Democrazia Cristiana e uomo dei clan fu ucciso perché non era stato in grado di mitigare la sentenza del maxiprocesso contro i boss.

Il rispetto, peraltro, era l’arma che Giovanni Falcone, nella fermezza del suo ruolo istituzionale, usava con i boss per metterli a loro agio e spingerli a parlare, concedendolo ma al tempo stesso pretendendolo: come quando a un boss che lo chiamò "signor Falcone", rispose netto: "No, io sono il giudice Falcone". Aveva capito, probabilmente, che Cosa Nostra si combatte conoscendone le leggi e i meccanismi specifici.

Banalizzare la mafia alla stregua di una qualsiasi cricca di delinquenti e minimizzare il colpo inferto dallo Stato italiano con complottismi e dietrologie vuol dire sottovalutare pericolosamente un nemico che, dismesse da tempo coppola e lupara, ha la sua arma principale nel mimetizzarsi quotidianamente con la società civile estendendo su di essa il proprio potere, soggiogandola con la corruzione o con la violenza e l’intimidazione.

L’arresto di Messina Denaro è una vittoria per lo Stato di diritto, a prescindere da chi sia al governo in questo momento: è un segnale chiarissimo che lo Stato c’è, e che il sacrificio e l’abnegazione di chi combatte il crimine organizzato ogni giorno alla fine paga. Non riconoscerlo, soprattutto per faziosità, vuol dire svalutare il ruolo di chi, ogni giorno, vive per la lotta alla mafia, spesso finendo sotto scorta e vivendo da prigioniero in casa, a volte, purtroppo, morendo sotto il fuoco e le bombe.