Il vescovo Lazzeri se ne va mettendo a nudo la sua umanità. Avrà pur avuto i suoi difetti, ma un addio così non si vede tanto spesso
Missa est. Il vescovo Valerio Lazzeri l’ha celebrata per l’ultima volta in questo ruolo, e intanto è inevitabile ricordare quel che è successo nell’ultimo mese o giù di lì. Pensando anzitutto che tra pèrdono e perdóno, non è solo una questione di accenti: perché una cosa è ammettere di non farcela proprio più – già di per sé difficilissima, in un mondo che premia da sempre le maschere della tracotanza e del ‘sun scià mi’ – e un’altra è andarsene chiedendo scusa, invece di dare la colpa dei propri limiti al prossimo: il nemico, l’amico che non ti ha voluto abbastanza bene, il ‘sistema’, la ‘congiuntura’. Per questo impressiona la dignità con la quale Lazzeri ha lasciato la sua carica, ricordando la differenza che può ancora fare un prete in un mondo in cui troppi giocano al top manager o al venerato maestro.
Perché Don Valerio – si tornerà a chiamarlo così, suppongo – ha tradotto in addio un gran bel coraggio: ha detto che no, gli spiace, non è colpa vostra; è che per quel ruolo lì, mite e studioso com’è, non era più tagliato. "Non riesco più a immaginarmi nella posizione di vescovo", aveva osservato con la semplicità contrita di quelli che chiedono sempre l’assoluzione, anche per i peccati che magari non hanno commesso: sensibilità rara, e mica solo al giorno d’oggi.
Il suo congedo è stato anche una confessione, nel senso agostiniano del termine. Ovvero al contempo un’ammissione della propria debolezza e una professione di fede. Due cose che ormai pare quasi impensabile tenere insieme, perché la tentazione viene più spesso dal cattivo consiglio dato a Giobbe: "Maledici Dio e poi muori". Invece quando vedi una persona così – commossa, con la testa bassa di chi sarebbe anche pronto a prendersi sulle spalle tutte le croci del mondo, ma non è sicuro di poterle reggere – l’unica cosa che puoi fare è provare un profondo senso di rispetto, anche da stropicciato agnostico come chi scrive.
L’episcopato di Lazzeri non è stato perfetto. Molti sono stati i problemi segnalati dagli stessi fedeli. Avrà certamente le sue colpe, come ognuno ha le sue. Ma ormai è finita e comunque – vale per tutti quel che dice il Papa – "chi sono io per giudicare?". E poi, come Lazzeri stesso ha ricordato ieri nell’ultima omelia: "Che bisogno abbiamo di fare ancora strepito con noi stessi per darci la convinzione di esistere, di essere migliori degli altri? Che necessità possiamo ancora coltivare di fare l’elenco delle cose che siamo riusciti a fare, mascherando le nostre debolezze, di ostentare i nostri successi, occultando i nostri errori?"
A voler proprio sfiorare la bestemmia, si potrebbe notare che quell’andarsene mettendosi a nudo di fronte a tutti ricorda Charlie Brown, o il Bartleby di Melville col suo "preferirei di no", o ancora l’ultima lettera di Cesare Pavese: "Perdóno tutti e a tutti chiedo perdóno, non fate troppi pettegolezzi".
Pettegolezzi che invece sono stati la paglia con la quale incendiare queste settimane. Perché adesso che Lazzeri se n’è andato è tutto un susseguirsi di allenatori del lunedì, Perpetue del senno di poi, Caifa un tanto al chilo che sezionano il detto e il non detto, improvvisandosi vaticanisti con la stessa nonchalance con la quale sono stati, negli ultimi anni, virologi ed esperti di geopolitica.
Eppure è stata proprio questa la sconfitta che il vescovo, congedandosi, ha saputo trasformare nella più inattesa delle vittorie, non tanto per lui, quanto per noi: la rinuncia a essere un vaso di ferro tra i troppi che già lo sono, o piuttosto fingono di esserlo, ciabatte di sacrestia e di piazza e farisei che "lo sanno a memoria il diritto divino, ma scordano sempre il perdono". La messa è finita. Tutto sommato, è finita bene.