Storia dei Piero che, perso lavoro e diritto alle indennità, vengono allontanati per ragioni di passaporto.
Nella vita di una persona il colore del passaporto può fare la differenza. E più di quanto ciascuno di noi possa immaginare. Non tutti (uomini e donne) hanno gli stessi diritti davanti alle autorità di uno Stato. Ma soprattutto non tutti hanno la stessa importanza. Di qualcuno, insomma, a ben vedere si può anche fare a meno. Soprattutto quando si ritrova senza lavoro, senza mezzi di sostentamento, senza prospettive (almeno sulla carta) e con un permesso di dimora che si fa presto a perdere. Bastano pochi requisiti per decretare che quel ragazzo o quella ragazza non ha più il diritto di farsi una vita da questa parte della frontiera.
Capita. È già capitato: come non ricordare la storia di India (per fortuna a lieto fine). Ricapiterà. Anche perché la politica della migrazione in Ticino ha preso una certa piega. Chi la vive sulla sua pelle, come il giovane uomo che abbiamo incrociato sul nostro cammino, la sente come una grande ingiustizia. Piero (nome fittizio), come il Piero di De André, non a caso sta combattendo la sua battaglia a colpi di ricorsi. Solo per questo, come gli ha fatto capire chiaramente il Consiglio di Stato nella sua decisione – calata giusto qualche settimana fa –, la sua permanenza qui "risulta poi unicamente tollerata in attesa di un giudizio definitivo". E sentirsi solo "tollerati" non è facile da digerire.
Il governo non intende, però, chiudere nessun occhio in questi casi. Dura lex, sed lex: lo si fa capire a chiare lettere, e senza fare sconti. Anzi il Cantone scomoda tutta una serie di articoli di legge e accordi internazionali, e persino la Corte europea dei diritti dell’uomo per giustificare il provvedimento preso nei confronti del giovane italiano, al quale non ha nessuna intenzione di rinnovare il permesso di dimora.
Il comportamento dello Stato rischia, però, di finire per essere affetto da strabismo. Da una parte, perso il lavoro, si ha accesso alla disoccupazione, dall’altra, privati di una entrata mensile – e scivolati nell’assistenza – non si ha più il diritto di restare. Non se si è stranieri. Su un lato del corridoio un ufficio ti concede di firmare un contratto di tirocinio, sull’altro un secondo ufficio ti toglie il lasciapassare. Per i Piero che si ritrovano nel mezzo non è semplice trovare la strada. Soprattutto davanti a uno Stato che ti indica l’uscita.
Ciò che fa più male ai ragazzi come il ‘nostro’ è sentirsi emarginanti tra chi non ha mezzi e finisce per perdere anche lo statuto di lavoratore, quindi il diritto di esistere agli occhi delle istituzioni. Perché non basta seguire un tirocinio (come è il caso) o essere occupati per un numero ridotto di ore o percepire redditi esigui per essere ancora considerati un lavoratore a tutti gli effetti. Poco importa se è una parentesi in una esistenza.
Così ai giovani come Piero tocca fare i conti col fatto che un Paese può "condurre una politica restrittiva in materia di soggiorno di stranieri" se è nel suo interesse. Insomma, il Consiglio di Stato è netto: nessun "esercizio abusivo del potere di apprezzamento". Se questo è un Stato.