No a un ulteriore aumento dell’età di pensionamento, no a riforme a scapito delle donne meno abbienti, avanti con quella del secondo pilastro
Habemus reformationem. La Svizzera ha (finalmente, si dirà) la sua undicesima riforma dell’Avs. Quella che già nel 2004 avrebbe dovuto far andare in pensione le donne a 65 anni, come gli uomini. Quella – con lo stesso intento – che per altre due volte era andata in fumo: in Parlamento nel 2010, alle urne nel 2017. Domenica una risicata maggioranza (50,6%) di chi è andato a votare ha detto sì ad Avs 21. Dimostrando tra l’altro che vale fino a un certo punto la regola secondo cui in Svizzera il sistema previdenziale può essere riformato solo col beneplacito dei sindacati e della sinistra.
I segnali alla politica sono abbastanza chiari. Il primo: le iniezioni finanziarie nell’Avs godono di una certa popolarità. Lo si era visto nel 2019, con la riforma dell’imposizione delle imprese che da allora fa affluire due miliardi di franchi l’anno nelle casse del primo pilastro. Ne abbiamo avuto la riprova: pur essendo strettamente legato all’oggetto ‘gemello’, l’aumento dell’Iva ha raccolto molti più consensi (55,1%) dell’aumento dell’età di pensionamento delle donne. L’esito del voto porta dunque acqua al mulino della sinistra, che ha sempre privilegiato questo approccio e che ha gli occhi puntati sugli utili della Banca nazionale. A questo stadio, un ulteriore rialzo dell’età di pensionamento nei prossimi anni pare politicamente irrealistico. Fuori discussione, ha tagliato corto il presidente dell’Alleanza del Centro Gerhard Pfister.
Il secondo segnale deriva dal fatto (ancora da corroborare cifre alla mano) che Avs 21 sia stata gradita di gran lunga più dagli uomini che dalle donne. Il presidente dei Verdi Balthasar Glättli ha parlato di «uno schiaffo della maggioranza degli uomini a una maggioranza delle donne». Per le forze politiche (Udc, Plr, Centro) che in Parlamento stanno dettando la linea sulla riforma del secondo pilastro, questo dev’essere motivo di riflessione. Adesso si sono potute accontentare di offrire lo zuccherino di compensazioni del tutto insufficienti. In futuro dovranno dimostrare di saper mantenere la promessa di garantire una previdenza professionale degna di questo nome a chi oggi (per lo più donne) ne è tagliato fuori o ne beneficia solo in minima parte.
Il terzo segnale riguarda proprio la previdenza professionale (o Lpp). Ed è «un segnale chiaro», ha insistito Alain Berset: il sì ad Avs 21 significa che «occorre assolutamente» riformare il secondo pilastro. Ma il consigliere federale non ne ha fatto mistero: nutre seri dubbi circa la fattibilità dell’esercizio. Il compromesso raggiunto tra sindacati e una parte del padronato, ripreso ‘tel quel’ dal Consiglio federale, è moribondo. Al Consiglio degli Stati la riforma langue. E a sinistra già si comincia a evocare un altro referendum.
Tutti ne parlano, tutti la vogliono questa riforma. Intendiamoci: è sacrosanto assicurare (o assicurare meglio) chi lavora a tempo parziale e nei settori con bassi salari. Ma è bene non farsi soverchie illusioni, anche se il tentativo dovesse andare a buon fine. La Lpp non è l’Avs: nel secondo pilastro minimi miglioramenti di rendita costano cari (in termini di anni ‘lavorati’, di contributi versati), mentre nell’Avs vengono ottenuti a un ‘prezzo’ relativamente inferiore. Per questo l’Avs non andrà persa d’occhio (oggi, tra l’altro, il Consiglio degli Stati discute di rendite adeguate al rincaro). Né andranno ignorati altri cantieri eternamente aperti, quali la parità salariale (a quando una legge incisiva?), la conciliabilità lavoro-famiglia e – non da ultimo – la presenza delle donne nelle sempre troppo maschili istituzioni e aziende di questo Paese.