Siamo in molti a lasciarci suggestionare dal rituale del saluto alla Regina per la sua capacità di stimolare un senso di riconoscimento trasversale
I rintocchi delle campane, le note celebrative, i passi misurati al ritmo del cordoglio, il richiamo dei colpi di alabarda sul pavimento dell’abbazia, la precisa evocativa messinscena dei ruoli sociali, le uniformi, i copricapo, i guanti bianchi, la corona su manto viola, il silenzio vibrante di attesa di fronte alla Storia o al mistero… In molti nei giorni scorsi si sono lasciati suggestionare dal rituale del saluto alla Regina Elisabetta, mirabile nella sua capacità di stimolare un senso di riconoscimento trasversale; di accorciare, esibendole, le distanze di classe sociale.
Quello dell’omaggio alla regina, più di ogni altro esibito dalla famiglia reale britannica, è un rituale paludato che, pur strappando forse qualche sguardo sornione all’Occidente repubblicano e sempre più apolitico, non manca di colpire anche l’immaginario di chi può vantarsi di non essere suddito di niente e di nessuno. Curiosamente, esso catalizza l’attenzione e seduce tanto più lo sguardo nel momento in cui, nelle nostre società evolute, si può riconoscere nel rito in sé un dato di cultura del tutto malconcio, percepito nel flusso informe della quotidianità come una parentesi vuota di senso, un obbligo o un fastidio a cui sfuggire quanto prima.
Chi non è mai stato a un battesimo in cui i tre quarti dei presenti, genitori del piccolo compresi, sembravano al più turisti di passaggio, da tutto occupati fuorché dall’ascolto? Chi non ha un conoscente convinto dell’assoluta inutilità del matrimonio, buono giusto per le imposte? O dei funerali, che tanto quando sei morto sei morto? Come se il rito funebre dovesse servire al defunto e non ai viventi?
Il lungo saluto alla regina, altamente ritualizzato, oltre a toccare momenti di autentica potenza evocativa, se non a suo modo di bellezza, dispone sotto i nostri occhi, con calcolata precisione, ogni tessera al fine di comporre un mosaico che non si riduce a seducente apparato scenografico, ma che è esso stesso macchina di senso. Non fondale maestoso, ma certificazione simbolica dell’approdo a una tappa quanto mai significativa, del completamento di un tragitto, di un nuovo inizio, per quanto incerto, nel cammino di un popolo. Uno specchio, forse deformante, in cui ciascuno può però riflettere la propria infinitesima particella di umanità in un io collettivo più vasto; multiforme mosaico in movimento, appunto, che ogni elemento accoglie e trascende, elargendo senso di appartenenza e, forse, identità.
A ben vedere, i compositi, distanti, a volte oscuri rituali che caratterizzano la monarchia britannica suggestionano proprio per la loro capacità di metterci sotto gli occhi, in forma parossistica, ciò a cui nel nostro piccolo stiamo progressivamente rinunciando, convinti di poter controllare, plasmare, determinare ogni palmo del nostro corpo, ogni fase della nostra storia individuale; certi di saperci riempire di senso in autonomia, a partire dalle nostre convinzioni o idiosincrasie, a prescindere da ogni contesto più ampio del nostro ombelico. Il rituale in sé, in quanto frutto di un’eredità culturale condivisa, non può non apparire sospetto con la sua pretesa di proiettarci dentro qualcosa che ci trascende, e non controlliamo. Dunque da rifiutare, a rischio di fare della nostra esistenza un’unica indistinta melassa, senza momenti in cui fermarsi, che sanciscano una fine e un inizio, un passaggio, che diano intimamente senso al nostro fluire, proiettandolo in una dimensione che lo precede e lo supera, e in cui possa ritrovarsi.