La sfida della comunità internazionale: vegliare affinché per il popolo ucraino ci sia un futuro degno, evitando derive già vissute altrove
Guardiamo il bicchiere mezzo pieno: la Conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina è arrivata, si è svolta e se ne è andata senza fare male a nessuno. Pochi o nulli i disagi per i luganesi, nessun tipo di minaccia che abbia richiesto l’intervento delle massicce forze di sicurezza dispiegate sul campo (perfino qualche manifestazione di protesta è andata in scena in modo pacifico) e tanti buoni propositi messi nero su bianco nella ‘Dichiarazione di Lugano’.
Il primo punto che negli auspici formulati durante la due giorni in riva al lago sembra dato per scontato, ma che scontato purtroppo non risulta, è che per dare avvio a un processo di ricostruzione il prerequisito indispensabile è che alla fine della guerra (prima o poi le armi dovranno pure essere messe a tacere) ci sia ancora uno Stato sovrano che risponda al nome di Ucraina.
Dopo Zelensky, a Lugano anche il primo ministro Shmyhal ha parlato di cifre: secondo la previsione di Kiev serviranno 750 miliardi di dollari per rimettere in piedi il Paese dopo la devastazione causata dall’invasione russa. Calcoli provvisori, per carità, dal momento in cui la guerra è tuttora in corso e non si sa nemmeno quali saranno in futuro i confini dei territori appartenenti all’Ucraina. Ma ammettiamo pure che le cifre indicate siano quelle effettivamente necessarie. Da dove arriveranno tutti quei soldi? Quanti di quei miliardi saranno messi a disposizione a fondo perduto e quanti invece saranno dei prestiti concessi dai governi e dalle istituzioni occidentali? A quali condizioni? I vari oratori presenti alla conferenza luganese hanno discusso di una ricostruzione che dovrà andare di pari passo con un processo di riforme: indipendenza del potere giudiziario, lotta alla corruzione, rafforzamento dello Stato di diritto. Tutto supercondivisibile, a priori.
La storia insegna però che ogni volta che i grandi d’Occidente si sono imbarcati in un processo di salvataggio e ricostruzione, non necessariamente post-bellico, dietro (o meglio, davanti) ci sono sempre stati degli interessi e anche delle conseguenze. ‘Hanno fatto il deserto e lo chiamano pace’, disse l’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis – citando Tacito – il giorno in cui la troika (Fmi, Bce e Commissione europea) lasciò Atene, dopo aver esercitato per anni una sorveglianza rigorosa sui conti ellenici. Alla fine degli anni 90 la Russia fu "salvata" con un pacchetto di aiuti del Fondo monetario per poi ricascare in una gravissima crisi economica che finì per condurre Putin al potere. Qualcosa di simile successe in Turchia nei primi anni 2000 e poi arrivò Erdogan a "mettere ordine". Gli Stati dell’Est europeo sono "rinati" grazie ai soldi dell’Unione e oggi si ritrovano tutti sotto l’ombrellone sovranista di Visegrád. Per non parlare dei Paesi del Medio Oriente "sostenuti" durante sanguinose guerre contro nemici comuni e abbandonati a sé stessi dopo il cessate il fuoco.
La ricostruzione dell’Ucraina viene oggi presentata come un "dovere morale" (Ursula von der Leyen al Palazzo dei Congressi) ed è giusto così, ma sappiamo che per molti sarà anche un grande affare. Finita la guerra, diventerà quindi una sfida della comunità internazionale vegliare affinché per gli ucraini ci sia un futuro degno, evitando derive già vissute altrove. Per un popolo che sta soffrendo l’impossibile sarebbe una beffa inaccettabile.