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Due miliardi in più all’esercito, senza sapere bene per cosa

Il Consiglio nazionale approva l’aumento del budget delle forze armate senza garanzie su come verranno spesi i soldi né sulla loro provenienza

La ministra della Difesa Viola Amherd durante il dibattito al Consiglio nazionale
(Keystone)
10 maggio 2022
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D’accordo, mai dire mai. Ma chi può ragionevolmente credere che un giorno ci toccherà vedere i panzer russi – o di un altro improbabile nemico di turno – a Ponte Chiasso? Chi può pensare che un domani missili intercontinentali sfrecceranno sopra le nostre teste? Sul piano militare, oggi la Svizzera non è meno sicura di quanto non lo fosse prima della guerra in Ucraina. Anzi. L’esercito russo, vincitore o no, uscirà con le ossa rotte, alquanto ridimensionato dal conflitto. La Nato invece ha serrato i ranghi: da tempo scricchiolante, l’architettura della sicurezza collettiva – l’‘ombrello’ atlantico dal quale la Svizzera, in virtù della geografia, trae profitto – si sta consolidando. La minaccia atomica resterà, quella sì. E il cyberspazio è un terreno la cui difesa pone ormai grosse sfide a tutti i Paesi, Svizzera compresa. Ma che adesso il nostro esercito – sulla scia di quanto avviene un po’ ovunque in Europa – debba ricevere miliardi di franchi supplementari ogni anno senza nemmeno sapere esattamente come verranno spesi, ci sembra un nonsense.

Eppure è questo che vuole la maggioranza (Udc, Plr, Centro) del Consiglio nazionale, che lunedì ha approvato una mozione volta a innalzare i mezzi finanziari per l’esercito, entro il 2030, dagli attuali 5 miliardi circa a 7 miliardi annui. Negli ultimi anni la priorità è stata accordata alla difesa aerea. Ora si tratta in particolare di «chiudere le falle che abbiamo nei mezzi difensivi delle nostre truppe terrestri, cioè fanteria, artiglieria e mezzi corazzati» (il Plr Rocco Cattaneo). Coi soldi supplementari – ha spiegato Viola Amherd – le lacune esistenti su questo e su altri fronti (la cyberdifesa, ad esempio) potranno essere colmate prima; e altre potranno essere evitate, tanto più che esiste già una concreta pianificazione degli acquisti. La ministra della difesa ha citato il mortaio 16 da 12 centimetri, ormai «idoneo alla truppa» dopo contrattempi a catena che ne hanno ritardato la messa a punto.

In realtà non sappiamo dove finiranno i soldi. Il Dipartimento della difesa (Ddps) ha sfornato un rapporto dietro l’altro negli ultimi anni. Il problema è che da un ‘rapporto’ o da una ‘concreta pianificazione’ all’acquisto stesso, il passo non è breve. Nell’ultimo decennio il Ddps non ha dimostrato grande predisposizione all’esercizio. La situazione è migliorata, ma si continua a faticare per allestire progetti in grado di ‘assorbire’ in tempo utile i crediti votati dal Parlamento. E allora: un conto è dire sì a moderati e puntuali aumenti del limite di spesa dell’esercito, in modo da finanziare singoli, importanti progetti giunti a maturazione; tutt’altra storia è assegnare una sorta di chèque in bianco spalmato su parecchi anni.

Non si capisce nemmeno dove li si andrà a prendere, i soldi, a cosa occorrerà rinunciare. Si andrà a intaccare la spesa pubblica? Verranno rimessi nel cassetto progetti fiscali che prevedono minori entrate miliardarie? Non lo sappiamo. E poi, se adesso agganciamo le spese militari al Prodotto interno lordo, cosa farà l’esercito quando vivremo una forte recessione?

Nessuno nega il bisogno di disporre di forze armate moderne, agili, in grado di rispondere – anche grazie a una maggiore cooperazione con la Nato – alle nuove minacce (cyberdifesa) e a quelle classiche (la lacuna a livello di difesa terra-aria va colmata, questo sì). Ma rispolverare vetusti carri armati, o addirittura conservare per nostalgia i Tiger F-5 della Patrouille Suisse (come hanno chiesto di recente i ‘senatori’ dei partiti borghesi), sembra il risultato di un riflesso condizionato, non certo il frutto di quella ponderata riflessione che la somma in gioco meriterebbe.