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Frontex: non complici, partecipi

Il 15 maggio si vota sull’aumento del contributo svizzero all’agenzia europea. Un rifiuto sarebbe lanciare un segnale simbolico e controproducente.

Si vota il 15 maggio sull’aumento del contributo svizzero
(Keystone)
30 aprile 2022
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Anche Alaa Bakri fuggiva dalle bombe russe. Non quelle che oggi piovono sull’Ucraina: quelle sganciate su Aleppo. Ha fatto il cameriere a Beirut, in Libano. Poi è andato in Turchia. Nel nord, a Edirne. Dove la Grecia è a un tiro di schioppo. Fine agosto 2021: Alaa attraversa il confine. Sta male, cammina a stento. Le persone con cui viaggia vanno avanti. Lui arranca, perde il contatto. Altri profughi lo raggiungono nel bosco. Il confine turco è già lontano, 70 chilometri dietro di loro. A turno gli uomini si caricano Alaa sulle spalle. Tre ore di marcia. Poi lo lasciano lungo una strada, sotto un albero. Le guardie di frontiera lo trovano lì, debilitato. Non lo portano all’ospedale, ma in una cella. Poco dopo, assieme ad altri, senza aver potuto chiedere asilo né cure, viene rispedito verso la Turchia. Muore all’alba del 2 settembre, su un isolotto in mezzo al fiume Evros, dov’era stato abbandonato poche ore prima.

Alaa aveva vent’anni. E un nome, appunto, scritto ora su una povera croce di legno nel cimitero di Edirne. Qui, nell’‘angolo morto dell’Europa’ (la ‘Nzz am Sonntag’, che ha ricostruito la vicenda del giovane siriano), si arenano le vittime più o meno anonime dei respingimenti illegali (‘pushback’) ad opera delle guardie di confine greche e di chi dà loro man forte: le loro storie minime svanite alla frontiera esterna dell’Europa, i loro sogni inghiottiti dai flutti del fiume Evros.

Non si muove foglia lungo il confine greco-turco senza che lo si veda a Varsavia, sui monitor del quartier generale di Frontex. Ma non c’è traccia di un qualsiasi coinvolgimento dell’Agenzia nel caso di Alaa. Né in quelli di molti altri che come lui riescono a varcare la frontiera per poi essere ricacciati in Turchia, spesso in mutande, senza cibo né cellulare. Frontex invece per anni ha tollerato, occultato e persino preso parte alle intercettazioni della guardia costiera libica nel Mediterraneo. E ha chiuso gli occhi ad esempio quando i guardacoste greci, il 19 aprile 2020, hanno fermato un gommone di migranti vicino all’isola di Lesbos, lo hanno trainato al largo e poi lo hanno lasciato andare alla deriva verso le coste turche. L’ennesimo ‘incidente’, dettagliato da ‘Der Spiegel’: uno dei tanti avvenuti nel Mar Egeo con la partecipazione più o meno attiva di Frontex (ormai attestata in centinaia di casi, come ha rivelato mercoledì un pool internazionale di giornalisti), e che hanno costretto il suo direttore Fabrice Leggeri a rassegnare le dimissioni.

Si dirà: basta e avanza per dire ‘no’ all’aumento del contributo svizzero (vedi p. 2). Eppure le cose non sono così semplici. La responsabilità principale delle violazioni dei diritti fondamentali alle frontiere esterne dello spazio Schengen non ricade sull’Agenzia: è delle guardie di frontiera e costiere nazionali. Frontex oltretutto non è più (così) presente (gli Stati non la vogliono di mezzo) laddove tali violazioni sono più frequenti (al confine croato-bosniaco, ad esempio). Sparare un segnale simbolico ("non rendiamoci complici") contro la ‘fortezza Europa’? Sbaglieremmo bersaglio. Frontex non scomparirebbe; e la Svizzera perderebbe l’occasione di contribuire, dall’interno, al rafforzamento (peraltro già in atto) dei suoi meccanismi per la tutela dei diritti fondamentali. Per quanto paradossale sembri, le persone che si affacciano all’Europa non hanno nulla da guadagnare dall’indebolimento di un’Agenzia che bene o male – sotto l’occhio vigile del Parlamento europeo – funge da argine alla rinazionalizzazione dei confini, agli abusi commessi talvolta da guardie di frontiera e guardacoste sopraffatti e poco formati, alle nefandezze di trafficanti senza scrupoli.