Non bastano la ripresa in toto delle misure di ritorsione Ue e un Presidente in piazza. In fatto di sanzioni, la Confederazione lascia a desiderare.
Molti lo hanno rimproverato per il diplomatico tweet ("presunte violazioni del diritto umanitario internazionale", che "tutte le parti" sono chiamate a rispettare) con cui il Dfae ha reagito agli "avvenimenti" di Bucha, dove centinaia di civili sono stati massacrati. E il presidente dell’Udc Marco Chiesa è tornato ad accusarlo di aver "distrutto la nostra neutralità", con la ripresa delle sanzioni Ue da parte del Governo e la sua performance alla manifestazione pro-Ucraina sulla Piazza federale. Smessi i panni dell’apprendista ministro degli Esteri, vestiti quelli di un presidente della Confederazione catapultato in un conflitto come se ne vedono ogni cent’anni, Ignazio Cassis è diventato la Croce Rossa su cui sparare. Pochi gli vengono in soccorso. Lo ha fatto, sulla stampa romanda, Micheline Calmy-Rey. Madrina di quella dottrina della ‘neutralità attiva’ seguita sin dagli anni Novanta e nel cui solco il Consiglio federale è rimasto dopo l’aggressione russa dell’Ucraina, l’ex consigliera federale ha rammentato l’essenziale: la Svizzera non sta facendo altro che "schierarsi dalla parte del diritto, non da quella di un belligerante".
Cassis poteva evitare di andare in piazza. Avrebbe anche potuto impedire al suo dipartimento di trincerarsi dietro una retorica ingessata, spingendolo invece a chiamare subito per quel che sono (come del resto lui stesso ha fatto l’indomani) gli orrori scoperti vicino a Kiev. Errori in parte comprensibili. Per nulla comprensibile, invece, è l’atteggiamento dell’intero Consiglio federale in merito alle sanzioni contro la Russia. In gioco qui non è la comunicazione, ma lo scollamento tra le parole – consegnate a un’apposita ordinanza – e i fatti che (non) seguono.
Non sappiamo se le misure di ritorsione economica potranno incidere sul corso di una guerra come questa. Sta di fatto che le sanzioni, accanto alla diplomazia e all’azione umanitaria, e per quanto aggirabili siano, sono tra i pochi strumenti non bellici a disposizione degli Stati per cercare di ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. La Svizzera, piazza finanziaria di primo rango e piattaforma cruciale per il commercio delle materie prime russe, ha una responsabilità particolare al riguardo. Il presidente ucraino Zelensky lo sa bene e le ha chiesto di darsi una mossa. Ma Confederazione e Cantoni stanno facendo quello che spesso hanno fatto in passato: il minimo indispensabile.
Il valore complessivo dei beni e dei fondi bloccati (7,5 miliardi, su un totale di attivi russi stimato in 150-200 miliardi) è quello che è. Ma la Segreteria di Stato dell’economia continua a ricevere notifiche. E il Consiglio federale non esclude una partecipazione alla task-force internazionale che dovrebbe scovare i patrimoni nascosti ovunque dagli oligarchi russi sanzionati. Ma le maglie del dispositivo approntato sono alquanto larghe. E finora non si è intravista la volontà politica di restringerle, in modo da assicurare un’attuazione risoluta, completa e soprattutto rapida dei provvedimenti.
Nel ventesimo secolo il manto di una rigida neutralità è servito alla Confederazione anche per coprire lucrosi affari con regimi della peggior risma. La guerra in Ucraina ha rivelato agli svizzeri e al mondo un Paese un po’ più elastico in relazione a questo tabù. Allo stesso tempo, la Svizzera di oggi si scopre non poi tanto diversa da quella di ieri. Da quella di un passato al quale Christoph Blocher e i suoi – con l’annunciata iniziativa popolare per iscrivere nella Costituzione il principio di una neutralità che escluda persino l’adozione di sanzioni internazionali – vorrebbero inchiodarla.