Il candidato dell’ultradestra lancia la corsa all’Eliseo con un pippone nel quale infila tutte le vecchie glorie francesi, tra nostalgia e razzismo
«Il Paese di Giovanna d’Arco e di Luigi XIV, il Paese di Bonaparte e del generale de Gaulle, il Paese dei cavalieri e delle damigelle, il Paese di Victor Hugo e di Chateaubriand (lo scrittore, non il filetto), il Paese di Pascal e di Descartes» e così via di anafora in anafora, inanellando in un vertiginoso bignami dell’orgoglio francese Molière e Lavoisier, il Gavroche dei Miserabili e il Johnny Hallyday di ‘Viens danser le twist’, Pasteur e Clemenceau, i ‘poilus du 14’, che hanno fatto la guerra, e Brigitte Bardot, che ha fatto Brigitte Bardot. E poi ancora Barbara, Aznavour, Gabin, Delon. E il Concorde. E le centrali nucleari (giuro).
Il video di candidatura all’Eliseo di Éric Zemmour è anzitutto un inno spudorato alla Francia che fu, dieci minuti di effetto-nostalgia che accostano idilliache immagini d’archivio – i bei tempi di quando il macellaio ti teneva da parte l’andouillette e potevi parcheggiare in Place Vendôme – a brutali scene di teppismo urbano. Nelle prime son tutti bianchi, nelle seconde tutti neri. Il messaggio è chiaro, enfatizzato dal tono grave e lento di Zemmour, come si fa coi moribondi e gli storditi: «Camminate per le strade della vostra città, ma non la riconoscete. Guardate i vostri schermi e sentite parlare una lingua strana e, diciamolo, straniera… Non vi siete trasferiti, eppure non vi sentite più a casa vostra».
La messinscena ricorda un po’ la bimbetta ariana di una recente pubblicità Udc, quella che si lamentava geriatricamente degli immigrati e di non trovar posto sul tram. Ma qui siamo a un livello ancora più estremo: non si fa neppure finta di negare la bufala del ‘grand remplacement’, della sostituzione dei ‘veri’ francesi a opera di islamisti, jihadisti, teppisti, terzomondisti, europeisti, comunisti, genderisti e gommisti (la passione per le liste di Zemmour è contagiosa).
L’effetto è quello di un signore poco raccomandabile che prende per mano l’omarello smarrito e lo conduce alla riscossa del Paese: «Non è più tempo di riformare la Francia, ma di salvarla». Pazienza se nel momento di massima celebrazione della bellezza francese si mette in mostra la piramide del Louvre, forma egizia ridisegnata da un cinese naturalizzato americano. O se i passaggi più drammatici sono sottolineati dagli archi della Settima sinfonia composta da un tedesco. O ancora se certe frasi sono prese pari pari dai classici della retorica politica americana: il “governo del popolo, dal popolo, per il popolo” del Lincoln di Gettysburg, o quel ripetuto “nous les Français” che fa tanto “We, the People”, oltre a ricordare una sgarzolina marcetta di Georges Milton. Tanto copre tutto la salsa burrosa dello sciovinismo – “siamo tra le potenze che hanno fatto la Storia del mondo” – in quella che pare a tutti gli effetti una caricatura del francese arrogante, talmente protervo da risultare ridicolo: come quando si commuove per la nazione “leggera e brillante”, “intelligente e stravagante”, neanche fosse la réclame della Twingo.
D’altronde Zemmour mette le mani avanti: non teme “les quolibets et les crachats”, battutacce e sputi, e chiede ai suoi di non temere, anche se “vi chiameranno razzisti” (ma guarda un po’). L’importante è tenere lo sguardo fisso sulla gloria all’orizzonte, o meglio sullo specchietto retrovisore, insomma: su quelle neiges d’antan che hanno fatto la fine delle mezze stagioni, della buona educazione tra i giovani e del Concorde. Dispiace solo che in mezzo alla nomenclatura amata da Zemmour sia finito anche Georges Brassens, il quale se fosse ancora vivo risponderebbe probabilmente con un suo celebre ritornello a tanta nostomania: ‘Le temps ne fait rien à l’affaire / Quand on est con, on est con’.