La Republika Srpska, entità a maggioranza serba della Bosnia, fa di tutto per esasperare gli animi, con l’aiuto di Belgrado. Meglio farci caso ora
“Il sarajevese Sefer Hasanefendic nel marzo del 1992 si stupì di fronte ai primi spari in città sul ponte di Vrbanja. Un mese dopo, ascoltando gli orrendi bollettini provenienti dalla Drina continuò a scuotere il capo dicendo: non è possibile. Non è che fosse sconvolto da una cosa mostruosa. Semplicemente non la credeva vera”, scriveva Paolo Rumiz nel suo “Maschere per un massacro”.
La Guerra dei Balcani iniziò per due motivi: qualcuno voleva farla a tutti i costi, qualcuno si ostinava a credere che nessuno volesse farla davvero, a dispetto delle evidenze. Eppure “tutte le mosse preparatorie del conflitto in Bosnia si sono svolte alla luce del sole. Alcune sono state provocatoriamente annunciate, ma quasi nessuno, in quella fatale primavera del ’92, vi prestò attenzione”.
Gli indizi erano tanti e inequivocabili. Ogni mese, ogni settimana e poi – quando tutto stava precipitando a una velocità inarrestabile – ogni giorno, si fissava un punto dove oltre non si poteva arrivare, per poi ritrovarselo inevitabilmente alle spalle. Il peggio che non doveva arrivare era già arrivato. Non era più nemmeno il peggio. E le schifezze inventate dai signori della guerra erano sempre un passo oltre l’immaginazione di chi la guerra la subiva, non la capiva e non la voleva.
Il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik (Keystone)
Oggi, a distanza di trent’anni, sembra di essere tornati a quel punto. Sono cambiate tante cose, la Jugoslavia non c’è più ed è nato un nuovo mondo interconnesso e iperconnesso dal web, rivoluzione che in quegli anni era a un passo, ma nessuno è stato in grado di prevedere, proprio come la guerra.
Oggi le notizie che arrivano dai Balcani sono per l’Occidente esotiche e lontane come quelle dell’America Latina, eppure sono Paesi che con l’Unione europea confinano e della storia dell’Europa fanno parte. Bisognerebbe fare un po’ d’attenzione in più a fatti che sembrano buoni per una risata o un film, come la guerra delle targhe tra Kosovo e Serbia. Una vieta la circolazione alle auto con la targa dell’altra, e l’altra si mette a fare lo stesso. Muro contro muro. E come va, va: male, di solito, da quelle parti, dove la gente non dimentica i torti e le guerre di secoli prima. La battaglia di Kosovo Polje, tirata in ballo anche negli ultimi conflitti, è del 1389. C’è gente che ne parla come se fosse finita ieri.
La preoccupante esercitazione avvenuta a Jahorina (Keystone)
Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, la parte filoserba della Bosnia, le sta provando tutte: ha bloccato i lavori del Parlamento, ha creato autorità locali indipendenti nonostante la Costituzione glielo vieti, vuole un posto tutto suo all’Onu e chiede di declassare il genocidio di Srebrenica a semplice atto di guerra scappato di mano. C’è un video inquietante, girato in questi giorni nelle montagne di Jahorina, da dove i serbi attaccavano Sarajevo, in fondo alla valle: è un’esercitazione con spari, elicotteri, carri armati. L’effetto déjà vu qui non è solo voluto, ma ostentato. Il messaggio è “l’abbiamo fatto, possiamo rifarlo”.
Intanto la Serbia, alleata di Dodik, pensa bene di mandare la polizia a Vracar, quartiere di Belgrado famoso per avere un enorme murale di Ratko Mladic, il generale colpevole del genocidio di Srebrenica: stanno lì per proteggerlo. Lo hanno rovinato più volte. Andrebbe cancellato e invece viene preservato. Roba da non crederci, a cui è bene iniziare a credere per non arrivare spiazzati e con la guardia bassa dinnanzi all’inevitabile.