Competitività, quello che dicono le classifiche di confronto intercantonale
La realtà istituzionale svizzera è così da sempre: si presta, più di quella di altri paesi europei, a stilare classifiche di ogni genere che possono andare dai cantoni più piovosi, a quelli con i prezzi degli alloggi più alti o alle rette degli asili nido più convenienti, passando per l’immancabile graduatoria fiscale. E ogni volta che si compila una classifica, qualunque sia il campionato in cui si gioca, c’è un primo posto e un ultimo. Il campionato del federalismo svizzero, per fortuna senza retrocessione, è composto da 26 squadre.
Il Ticino, stando agli ultimi due studi, uno sulla competitività dei Cantoni (Ubs) e l’altro sulla qualità della localizzazione (Credit Suisse), non primeggia. Non è ultimo, ma rimane nella zona bassa della classifica generale: 21° in un caso e 23° nell’altro. Questo non vuol dire che il potenziale di crescita economica a lungo termine sia nullo o limitato. Semplicemente, rispetto agli altri concorrenti nazionali, le opportunità ticinesi e dei cantoni con i risultati più bassi sono inferiori alla media. Se si allarga il confronto al contesto internazionale, tali realtà sono e restano di gran lunga più competitive di altre regioni del mondo.
Ma cosa ci dicono in realtà queste classifiche? L’indice dell’Ubs è costruito prendendo in esame una serie di parametri, ben 56, riassunti in otto ambiti tematici: struttura economica; innovazione; capitale umano; mercato del lavoro; accessibilità; bacino di competenza; livello dei costi e finanze pubbliche. Per sei di questi il Ticino ha ricevuto un voto non distante dalla media svizzera: sufficiente, diciamo così. In due materie – capitale umano e mercato del lavoro – la valutazione è invece negativa. Gli economisti di Ubs ci stanno dicendo che su questi due punti non siamo messi, obiettivamente, così bene rispetto ad altri cantoni. Non è colpa del termometro se fa freddo o caldo. È così e basta. Questo per dire che la pretesa maggiore competitività ticinese che deriverebbe dalla vicinanza con la Lombardia, ampio bacino di reclutamento di manodopera specializzata, non è veramente tale perché come tutte le medaglie ha due facce: se da un lato non si hanno troppe difficoltà a trovare alti profili professionali oltre confine, la pressione sul mercato del lavoro locale è però tale da spingere molti giovani qualificati a cercare opportunità altrove. Il saldo migratorio interno mostra anche per il 2020 un deflusso dal Ticino verso il resto della Svizzera. Una tendenza in atto da anni, ormai. E questo è un dato, non una congettura.
Anche l’invecchiamento della popolazione, più alto in Ticino, incide sulla scarsa dinamicità del mercato del lavoro locale che presenta sì un tasso di disoccupazione in linea con quello nazionale, ma ha molti più disoccupati di lunga durata. Insomma, se si perde il lavoro, ci vuole più tempo a trovarne un altro. Pure questo è un dato oggettivo. La demografia, infine, incide sulla spesa sociale e sanitaria. E qui entra in gioco lo studio del Credit Suisse sull’indice della qualità della localizzazione (in pratica dove conviene di più, ad aziende e persone, stabilirsi) che dà più peso alla fiscalità. Con una popolazione che invecchia, la spesa pubblica è destinata a crescere e il gettito a calare. I vigorosi tagli fiscali auspicati da qualcuno rischiano solo di appesantire la competitività invece di liberarla. Sarebbe molto meglio concentrarsi su politiche che cerchino di invertire la tendenza demografica, aumentino la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e formino adeguatamente il futuro capitale umano. E questo per continuare a giocare nel campionato svizzero.