Si pensava che l'allargamento dell'Ue portasse con sé una contaminazione democratica, i fatti e gli interessi nazionali ci stanno dimostrando il contrario
Sulla faglia politico-ideologica che sta sempre più approfondendosi nell’Unione europea c’è, ancora e tenace, il peso della storia. Che sarebbe sbagliato ignorare o anche solo sottovalutare. In effetti, non è facile e scontato, per la parte di continente a lungo costretta a vivere dentro confini e muri dell’impero sovietico, una convivenza che nell’Ue prevede anche la rinuncia a parti della recuperata sovranità nazionale.
Si tratta di una sensibilità che non riguarda soltanto le élite al potere nel cosiddetto fronte di Visegrad (trainato da Ungheria e Polonia), ma tocca la memoria collettiva di popolazioni che trent’anni fa vissero il collasso dell’Urss come una sorta di ‘scarcerazione’. Semmai, il problema è un altro. Il problema è che le leadership al governo lungo quel fronte si servono spesso strumentalmente del sentimento nazionale per promuovere i loro progetti illiberali: condizionamento crescente della magistratura, forti limiti alla libertà di stampa, controllo degli apparati statali di sicurezza, progressivo indebolimento dello Stato di diritto, diffuso ricorso al sistema di controllo Pegasus contro avversari e oppositori, e addirittura la correzione imposta a manuali di storia che devono essere ‘ripuliti’ da pagine poco nobili (per esempio il diffuso e radicato antisemitismo) per non compromettere l’immagine idealizzata della nazione.
Rischi già percepibili quando, oltre 15 anni fa, in un famoso vertice di Dublino sull’allargamento della Comunità, chiesi all’ex presidente della Commissione, Romano Prodi, se la massiccia cooptazione non fosse stata troppo precipitosa e prematura. Serafica risposta del professore: “L’Europa ha forte attrattività, capacità persuasiva e di contaminazione democratica”. Oggi, di fronte alle contestazioni dell’Unione su metodi e leggi intollerabili per i ‘valori comunitari’ (ultimo in ordine di tempo il progetto magiaro sulla normativa “omotransfobica”), siamo invece al portavoce di Orbán che definisce Bruxelles “la nuova Urss”. Ben sapendo, appunto, che un simile e improponibile raffronto storico incide sui timori del Paese e sulla pesca di consensi elettorali favorevoli alle continue sfide di Orbán all’Europa.
Europa che ora reagisce. Anche perché non è più rinviabile la risposta a una domanda esiziale: quanto sia sopportabile nella vita comunitaria il continuo strappo a quelli che, quantomeno teoricamente, sono i valori fondanti dell’Ue; e se una lunga passività non rischi di condannare, snaturandole, le fondamenta dell’Unione. Passività di tutti, in particolare della Germania, i cui importanti investimenti per esempio in Ungheria sono stati assai proficui (bassi salari, alti profitti); e passività di fronte al documentato utilizzo di miliardari fondi europei – equivalenti al 3 per cento del Pil magiaro – finiti nelle mani di parenti e sodali del premier. È un suo compagno di scuola l’uomo più ricco del Paese, Lorinc Meszaros: lavori pubblici per 900 milioni di euro, il 93 per cento provenienti dalle casse comunitarie.
L’Ue smetta di “essere ingenua”, invoca ora ‘Le Monde’. Ma – a causa di interessi economici e normative Ue inefficienti – potrebbe essere un invito inutile o tardivo.