Commento

Il tempo sospeso dei reduci del G8

Vent'anni dopo la polizia continua imperterrita a menare le mani giustificata da una parte politica. Dall'altra parte le certezze intoccabili di chi manifestò

Un manifestante davanti alla polizia il 20 luglio 2001 (Keystone)
21 luglio 2021
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Tutto quel che di orribile accadde vent’anni fa alla scuola Diaz, ormai associata per sempre alla parola macelleria, è – secondo Amnesty International – la più grande sospensione dei diritti civili in un Paese democratico.

Tutto quel che stiamo vedendo oggi è una sospensione del tempo. A parte una sparuta minoranza che ha provato a fare i conti con gli anni che passano, con quella follia chiamata G8 di Genova e con se stessa, il resto continua a replicare pensieri, parole, abiti e abitudini. Sembra ieri, il 2001, e per qualcuno lo è ancora. Come in quelle faide familiari infinite in cui un torto subito dal trisavolo è un buon motivo per giustificare ogni torto fatto, ogni pensiero sbilenco. Autocritica: nessuna. E quella certezza dell’essere nel giusto, al cento per cento, sempre e comunque, accentuata da appartenenze a bolle social che sostengono e coccolano ogni tesi.

Senza mai chiedersi se un’altra strada fosse possibile. Questa abbiamo percorso e questa ci dobbiamo tenere, ok. Ma fare avanti e indietro col paraocchi non solo non porta lontano, non porta da nessuna parte. E quindi ecco poliziotti e amici di poliziotti, politici conniventi o semplicemente abituati a strizzare l’occhio a quella destra che in Italia ama il manganello (sugli altri), ma poi va a farsi togliere la multa dall’amico vigile, che rimpiange il Duce, ma poi frigna e parla di regime se gli impedisci di andare al bar in piena pandemia: insultano, dileggiano, non hanno pietà per i morti e per i vivi, per i vessati, per chi porta, fuori e dentro, le ferite di quel G8 in assetto da guerra. Esibiscono tatuaggi in numeri romani, ma non sanno leggerli. Usano ancora quel vocabolario là: “zecche”, “comunisti”. Hanno aggiunto tra gli insulti e gli insultati “Greta Thunberg”, come se essere giovani e preoccuparsi di dove va il mondo fosse una colpa e non un diritto, un dovere.


Un momento degli scontri del G8 del 2001 (Keystone)

Mandano messaggi, subliminali o espliciti, coloro che hanno picchiato o goduto nel veder calpestare mani, teste, diritti e dignità. Fanno letteralmente schifo, non c’è altra parola per descriverli. Perché dopo un giorno, una settimana, un anno – stordito da certi convincimenti – puoi anche far finta di non capire che una parte dello Stato aveva deciso di giocare alla guerra come i bulli di Arancia Meccanica. Dopo vent’anni non sei tonto, sei fascista.

Ma che dire di chi inneggia oggi a Carlo Giuliani come se fosse Gandhi o Mandela? Di chi assiste a commemorazioni e celebrazioni con qualche capello bianco in più e la stessa identica mise, comprata nei mercatini di strada nel 2001, nelle botteghe solidali oggi. E dell’immancabile concerto di Manu Chao, tornato a Genova in questi giorni: voce e chitarra dei buoni.

Quando Michele Vaccari, scrittore genovese – e molto di sinistra –, si è permesso di dire che cantanti come Manu Chao hanno fatto fortuna dentro al sistema che criticavano, e che non sono degni di rappresentare certi ideali, gli si sono rivoltati tutti contro. Manu Chao non si tocca, perché in quel domino costruito per vent’anni, se butti giù un pezzo butti giù tutto. A chi stava dal lato giusto della barricata mai niente si può rimproverare. Allora come oggi. Nemmeno se la voce critica arriva dalla tua stessa parte. O Giuliani e Manu Chao sono eroi anche per te o tu sei un nemico. Proprio come il 20 luglio 2001.

Intanto la polizia picchia nel carcere di Santa Maria Capua Vetere come picchiava nelle aule della Diaz, lasciando qua e là cadaveri innocenti come Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, troppe volte impunita.

La sospensione del tempo. Sembra ieri, anzi lo è.