La Procura ha avviato un’inchiesta, dunque tutti zitti. Il giornalista è ormai persona non grata. Dove sono finiti i principi della democrazia liberale?
Dopo la girandola di dichiarazioni e prese di posizione di un mondo politico impaziente di riscaldare i muscoli dell’oratoria, improvvisamente è calato un silenzio sepolcrale. Dei rovinosi eventi del 29 maggio al Macello di Lugano, con i suoi possibili risvolti penali e politici, più nulla. Affermazioni affrettate, smentite, dichiarazioni contrastanti e una credibilità fortemente a rischio d’amianto, hanno indotto gli esecutivi a negarsi alla stampa. Il Ministero pubblico ha avviato un’inchiesta, dunque tutti, Municipio e Consiglio di Stato, zitti. Il giornalista è ormai persona non grata. Il mantra recita: lasciamo lavorare la Procura. Come se in una democrazia l’entrata in gioco della magistratura segnasse il capolinea dell’informazione dei media. Singolare concezione della libertà di stampa e di diritto della popolazione di essere informata. Dove sono finiti i principi della democrazia liberale?
Dopo l’iniziale scatto da centometristi verso microfoni e telecamere, è così giunta l’ora della ritirata. Parola d’ordine: silenzio stampa. L’Associazione ticinese dei giornalisti, dopo aver giustamente stigmatizzato il comportamento di alcuni autogestiti che considerano il dialogo e il rispetto della libertà di informazione e di opinione un semplice optional del famigerato capitalismo patriarcale anti Lgbtq+, punta oggi il dito sulle istituzioni. Che disattendono i principi stessi del rispetto della nostra professione e della libera informazione, cardine dello Stato di diritto. I precedenti non mancano e l’escalation è inquietante, dalla gestione iniziale della pandemia con il divieto di porre domande non concordate durante le conferenze stampa, alle surreali piroette del capo della Polizia cantonale per i fatti di presunto terrorismo alla Manor di Lugano nel dicembre dello scorso anno. Senza dimenticare che il giornalista non compiacente che increspa lo stagno viene spesso marchiato a fuoco: è di sinistra, fazioso, fiancheggiatore di chi vuole indebolire l’Autorità. Niente domande scomode, please.
Norman Gobbi sostiene che i media alimentano i sospetti, ma basterebbe che accettasse di rispondere agli interrogativi della stampa per scongiurare il rischio di strumentalizzazione partigiana. Però il capo del Dipartimento delle istituzioni non lo fa. Di fatto il giornalismo in Ticino è posto su un piano inclinato, nel momento stesso in cui vi è una progressiva erosione dei suoi margini di manovra a livello nazionale. Recentemente il Consiglio degli Stati ha approvato a grande maggioranza una modifica della legge sui provvedimenti cautelari che consente di bloccare più facilmente la pubblicazione di inchieste giornalistiche. Il Codice di procedura penale con il suo restrittivo articolo 74.4 sulla pubblicazione dei nomi di persone coinvolte in fatti di cronaca assume spesso la fisionomia di un bavaglio. Su un piano inclinato ci situa, noi svizzeri, anche l’ultimo rapporto di Reporter sans Frontières sulla libertà di stampa. Scivoliamo al decimo posto perdendo due posizioni. Sarebbe forse utile ogni tanto ricordarsi che la libertà di stampa non è uno sfizio, ma un mandato costituzionale. Che sulle rive del Cassarate e del Ticino sembra a volte non godere di molti sostenitori.