La pandemia poteva essere un’opportunità per sviluppare un dialogo autentico e costruttivo tra scienza e società. Ma non è andata così
Ammettiamolo: un po’ ci avevamo creduto, alla storia che ne saremmo usciti migliori. O quantomeno ci abbiamo un po’ sperato, guardando a quel rinnovato senso di comunità e di responsabilità delle prime settimane di pandemia. Adesso gli interrogativi sensati su cosa resterà riguardano giusto qualche giorno a settimana di telelavoro e gli aperitivi da asporto.
Finché si tratta della scomparsa dai balconi degli striscioni arcobalenati, poco male: la delusione più grande, in questo anno e passa di pandemia, riguarda il rapporto tra scienza e società. Di motivi per sperare in un dialogo autentico tutto sommato ce ne erano: la diffusione globale di una nuova malattia contagiosa come monito ad ascoltare chi da tempo sottolineava il rischio rappresentato dalle epidemie; un nuovo virus di cui si sapeva poco, dalle origini alle modalità di contagio all’efficacia di trattamenti e interventi non farmacologici, un’occasione per ragionare su come prendere decisioni in situazioni di incertezza e adattarle al progredire delle conoscenze; un’emergenza sanitaria che riguarda non solo la salute del corpo, ma anche la mente, i rapporti sociali e l’economia è un invito a mettere in relazione varie discipline e approcci per dare più elementi possibili alla popolazione e ai decisori politici; una pandemia che colpisce tutta la popolazione mondiale, un’opportunità per superare certi pregiudizi prendendo in considerazione le esigenze di minoranze e discutere a livello globale le misure necessarie. C’era, insieme alla paura e alla diffidenza, un grande potenziale di fiducia nei confronti del sapere scientifico che lentamente si è esaurito, travolto da paternalistici inviti, per non dire ordini, a “seguire la scienza”, dagli sfottò per chi anche comprensibilmente cadeva in qualche fake news o poneva legittimamente qualche domanda, dai calcoli geopolitici che hanno dominato lo sviluppo e la distribuzione dei vaccini, dall’incapacità, anche di buona parte della comunità scientifica, di gestire l’enorme flusso di informazione e disinformazione. Certo, uno zoccolo duro di complottisti e negazionisti lo si avrà sempre, ma è una minoranza chiassosa che bisogna ignorare guardando alla maggioranza silenziosa degli indecisi e dei perplessi. Che è rimasta lì: indecisa, perplessa e soprattutto disorientata da una comunicazione scientifica tutt’altro che esemplare.
È a questa occasione perduta che si pensa, leggendo le parole di Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’istituto clinico Humanitas, intervistato in occasione della consegna della borse di ricerca della Fondazione Ibsa che avrà luogo oggi. Parlando di responsabilità sociale della ricerca scientifica, di come la scienza non sia o non possa essere eticamente neutra e indifferente, Mantovani ha indicato certamente l’integrità, ovvero il dovere di non falsificare i risultati, il tipo di ricerca alla quale ci si dedica, ma anche la comunicazione. È un dovere, per la persona di scienza, comunicare con la società in modo semplice, chiaro e umile, riconoscendo i propri limiti, pensando alle conseguenze di quel che si dice. Durante l’intervista si è preferito non fare nomi, ma gli esempi negativi, durante questo ultimo anno, non sono mancati e alla fine, da questa pandemia, non ne usciremo migliori, per quanto riguarda il dialogo tra scienza e società.
Accontentiamoci del telelavoro e degli aperitivi da asporto.