I rancori tra i due uomini più potenti della Terra risalgono a vecchi screzi. Si conoscono, non si piacciono, ma dovranno comunque sedersi al tavolo
La crisi tanto attesa, e causata da vecchie ruggini, è scoppiata come nelle più autorevoli previsioni post-presidenziali Usa. Ora a rischio non vi sono soltanto le relazioni bilaterali tra Russia e Stati Uniti, ma la stessa stabilità internazionale. Mai nella storia un capo della Casa Bianca aveva alzato così tanto i toni, mettendola addirittura sul personale. In un'intervista televisiva Joe Biden è tornato ad affermare, come già fece in passato, che il collega al Cremlino “non ha un’anima”. Conoscere realmente l’interlocutore, secondo il leader Usa, aiuta a capirsi. Putin “pagherà un prezzo” per le interferenze russe nella campagna presidenziale Usa, ha promesso.
La parte più offensiva dal punto di vista personale riguarda semmai la domanda se il presidente statunitense “pensi che Putin sia un assassino”. La risposta breve, dopo aver annuito, è stata “sì, lo penso”. Attenzione, però, perché Biden non ha utilizzato il termine “killer”, rilanciato da tutti i media del mondo. Questioni semantiche o meno, tra russi e americani volano gli stracci. A parte una lunga storia di scortesie più o meno conosciute dal grande pubblico, i Democratici Usa sono ancora irritati per la gelida accoglienza a Barack Obama al vertice G20 di San Pietroburgo nel settembre 2013. Lo stesso Obama nel 2006, quando era ancora senatore e membro della Commissione incaricata di verificare il disarmo nucleare, ricevette in Russia un trattamento poco amichevole.
Per otto anni “braccio destro” di Obama, Biden non ha digerito questo modo di fare tra “potenti”, diventato manifesto dopo che, nel 2011, l’allora segretario di Stato Usa Hillary Clinton ricordò a Putin che non poteva essere rieletto presidente, poiché la Costituzione russa prevedeva solo due mandati, da lui già svolti. Quello fu il vero punto di rottura. Putin non prese bene le dichiarazioni della Clinton e le successive manifestazioni anti-Cremlino in Russia nel 2011 – organizzate secondo lui sotto l’influenza del Dipartimento di Stato Usa – vennero interpretate come un'interferenza in questioni interne.
Veniamo ai giorni nostri. Fondamentale è la tempistica. Subito dopo aver capito che Biden sarebbe stato il nuovo presidente, Mosca ha giocato d’anticipo. Tra novembre e i primi venti giorni di gennaio ha risolto alcune questioni pendenti a livello internazionale salvo inciampare in casa nell’inattesa vicenda Navalny, secondo Putin messa in piedi dagli occidentali.
Anche al netto dell’attacco personale di Biden, i russi si aspettavano ora questa situazione. Già martedì scorso i giornalisti stranieri accreditati erano stati invitati, con maggiore enfasi del solito, a un briefing della portavoce del ministero degli Esteri: a breve sarebbe uscito il rapporto dell’intelligence Usa contro Russia e Iran, mentre Putin si preparava a festeggiare – come tutti i 18 marzo negli ultimi 7 anni – il “ritorno” della Crimea alla Russia.
Adesso il Cremlino risponde minimizzando l’accaduto. L’obiettivo dichiarato dalla sua diplomazia è evitare il “degrado” nei rapporti con gli Usa. Pragmatismo, insomma. Anche perché Washington potrebbe creare enormi problemi all’economia federale. D’altronde Mosca sa bene, come per lo Start3 rinnovato alla fine di gennaio, che Biden dovrà comunque trattare con lei sull’arena internazionale.