laR+ DISTRUZIONI PER L’USO

L’insegnante, il festino e gli ayatollah del ditino puntato

Un party coca-champagne nelle aule di una scuola è un fatto grave. Ma l‘impressione è che pubblico, media e politica si siano fatti prendere la mano

(Depositphotos)
16 marzo 2021
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Dev’essersi risvegliato scarafaggio come il Gregor Samsa di Kafka, quell’insegnante che ha trascinato un intero festino coca-e-champagne nella sua stessa scuola. Postumi comprensibili, dopo una nottata nella quale sei riuscito a combinare insulti alla miseria, alle donne, alla legge e al buonsenso. Postumi che però vanno ben oltre il cerchio alla testa e le conseguenze disciplinari, e che all’acidità di stomaco aggiungono il fuoco nella prateria dell’indignazione collettiva.

Non è la prima volta che una massa senza volto si arroga il diritto di dispensare lettere scarlatte, e in parte era così anche prima di quei social network che hanno incastrato il docente. Eppure stavolta c’è stato qualcosa di incredibilmente rapido e politicamente trasversale nei commenti, nei post e nelle reazioni. Un secondo dopo la ribattuta della notizia, certi editorialisti già piangevano la “piccola tragedia culturale ticinese”. Intanto i politici cavalcavano l’onda per visibilità e tornaconto elettorale, fomentando quella reazione più simile all’orticaria che all’equanimità. “La presente interpellanza parte dal presupposto che al momento in cui vi sarà data risposta, il docente in questione sarà già stato licenziato con effetto immediato”, ha scritto in tempo record una deputata-maestrina parlando addirittura di “profanazione dell’istituzione scolastica”, ossignùr. “Incazzato” si è detto in radio il cipiglioso ‘ministro’ d’un movimento fondato da chi certi festini pare li conoscesse bene, ma la cui condotta è stata sempre messa via senza prete né bidello (e ci mancherebbe, trattandosi di affari privati. Ma allora si eviti di fare i chierichetti).

Poi ci sono tutti gli altri, dentro e fuori dai social, in un mondo in cui “ogni giorno qualcuno di nuovo emerge come grande eroe o disgustoso farabutto”, come scrive il giornalista americano Jon Ronson nel saggio ‘I giustizieri della rete’. Una dimensione nella quale “è tutto molto indiscriminato, e non è così che siamo fatti davvero”, eppure ci si ritrova come ayatollah inferociti a sguainare il “si vergogni”. Come se davvero ci si potesse vergognare a comando, come se non fosse solo un modo per dipingersi migliori del prossimo: quello che il collega Alessio Von Flüe ha icasticamente definito “fare l’elicottero col pisello”.

A furia di soffiare nel controfagotto della morale ferita è poi tornata anche la stucchevole retorica sulla “sacralità della scuola”, anche se tutto sommato stiamo parlando di un festino notturno tra adulti consenzienti. L’occasione d’altronde era d’oro, perché per far bella figura bastava esecrare il rio traviator di giovinetti – “i nostri figli!”, da esclamarsi frementi di sdegno e con gli occhi al cielo –, prendersela con un’intera categoria odiata fin dalla prima insufficienza, infine proseguire ad libitum con la pedagogia da bar. Naturalmente le geremiadi più assordanti sono arrivate da chi di quel mondo – del suo potenziale, delle sue difficoltà, delle sue debolezze – si è sempre disinteressato. E ora si sveglia all’improvviso per gridare alla violazione del temenos, del recinto sacro dell’istruzione, come se la scuola non fosse più prosaicamente un luogo dove si lavora, si lotta e magari si sbaglia ogni giorno. Ecco, forse è questa la cosa che mi dà più fastidio: sapere che i docenti finiscono sempre nel discorso pubblico solo quando c’è da rampognare e da sputar sentenze. Neppure da sinistra si sono alzati grandi inviti a non generalizzare, a prendere in considerazione le cose a mente fredda e concedere almeno un po’ di comprensione per le umane debolezze: a Gesù con l’adultera si gioca solo quando le pietre non volano davvero. Perché d’accordo, il comportamento dell’insegnante è stato grave e in un modo o nell’altro era inevitabile sanzionarlo. Però a volte è meglio ricordarsi anche De André: “Lo sanno a memoria il diritto divino / e scordano sempre il perdono”.