Minareti, niqab/burqa. E domani forse il velo a scuola. Ma sono altre le questioni che vanno affrontate in Svizzera.
Dodici anni dopo il divieto dei minareti, quello del velo integrale. Ma se la prima iniziativa del Comitato di Egerkingen prendeva di mira esplicitamente l’islam, quella per il ‘sì alla dissimulazione del proprio viso’ lo ha fatto solo in modo indiretto. Allora cadde un tabù, perché in gioco c’era un simbolo indiscusso per ogni credente musulmano; oggi non c’era alcun tabù da infrangere: si trattava in sostanza di decidere cosa fare del niqab, indumento indossato qui da un paio di dozzine di convertite e che suscita per lo più repulsione tra i 400mila musulmani che vivono in Svizzera.
Dal ‘sì’ di popolo e Cantoni non sono da attendersi conseguenze concrete per le donne interessate, né per altre/i. Sarebbe stato più o meno lo stesso in caso di ‘no’, d’altronde. Il “chiaro segnale” contro le derive dell’islam? D’accordo. Ma non è a colpi di segnale che si può sperare di costruire un sano dialogo inter-religioso, di gettare solide fondamenta per la convivenza civile.
Dodici anni: in questo lasso di tempo tematiche come il velo nelle scuole, la partecipazione di allieve musulmane ai corsi di nuoto, le strette di mano negate da allievi musulmani alle loro insegnanti, il finanziamento delle moschee e il terrorismo islamista sono balzate regolarmente agli onori delle cronache anche in Svizzera. È un bene che di simili ‘incidenti’ – rivelatori di trasformazioni sociali alle quali nemmeno la placida Confederazione può illudersi di sfuggire – si continui a dibattere. Come tutto sommato è stato un bene che in questi ultimi mesi si sia potuto parlare apertamente e in maniera pacata del ruolo della donna nell’islam. Ma domani, di cosa parleremo?
Non sappiamo ancora quale sarà la prossima mossa dei nostrani fustigatori dell’islam, occasionali campioni dei diritti delle donne. Il consigliere nazionale Walter Wobmann (Udc), presidente del Comitato di Egerkingen, afferma che col minareto e il velo integrale sono stati affossati due simboli tipici dell’islam politico e che non è il momento, adesso, di guardare al futuro.
Il futuro però è già incominciato. Con un’iniziativa popolare a livello cantonale (giudicata irricevibile dal Gran Consiglio vallesano e poi dal Tribunale federale) e un’iniziativa parlamentare (subito naufragata a Berna), il consigliere nazionale Jean-Luc Addor (Udc/Vs) ha già avviato la ‘crociata’ contro il velo nelle scuole. E la sua collega Marianne Binder-Keller (Alleanza del Centro) ha chiesto lo scorso anno al Consiglio federale di illustrare in che modo si possa creare una base legale affinché nelle scuole “sia garantita a tutti i bambini la possibilità di svilupparsi liberamente senza velo”. Il suo postulato è stato respinto. Ma il governo, pur ricordando che il Tribunale federale ha giudicato anticostituzionale un divieto generalizzato, non ha chiuso la porta a “soluzioni individuali e locali (...) più appropriate”, rispettose della competenza dei Cantoni in ambito scolastico.
Lo si è capito: non siamo al riparo dal rischio che altri dibattiti, più o meno sterili, distolgano nuovamente l’attenzione dai quesiti essenziali che interessano l’islam in Svizzera. Come ad esempio: quale tipo di riconoscimento accordare alle decine di organizzazioni musulmane esistenti? In che modo evitare che le moschee si trasformino in covi di estremisti, aizzati da imam radicali? Come vanno formati questi ultimi? Quali prospettive offrire ai giovani, musulmani e non? E qui non parliamo di simboli.