Il segretario del Pd annuncia le dimissioni attaccando il partito, che ‘pensa solo alle poltrone’. La strategia dello struzzo non ha funzionato
Nicola Zingaretti si è dimesso da segretario del Pd dopo due anni. Una notizia che pare abbia colto di sorpresa i dirigenti del partito. E sinceramente anche il sottoscritto: non mi ero accorto che fosse segretario del Pd.
Zingaretti aveva fatto dell’invisibilità e della debolezza la sua forza. Due caratteristiche difficilmente associabili al leader di qualsiasi cosa, figuriamoci del partito più longevo e più partito d’Italia: la prima dote può andar bene per un supereroe della Marvel, o per un ladro. Ma possiamo escludere con ragionevole certezza entrambe le ipotesi. La seconda può essere un buon modo per arrivare ai piani alti evitando di pestare i piedi a chi decide davvero e preferisce muoversi nell’ombra, occupando e assegnando poltrone senza l’assillo e il fastidio di dover stare in prima linea.
Il vero errore di Zingaretti è stato applicare questa sua attitudine allo scomparire anche al Pd: una strategia dello struzzo che ha perfino raccolto qualche applauso alle Europee del 2019. Prese il 22,7%: un risultato pessimo passato per un capolavoro per via dei 4 punti scarsi guadagnati rispetto alle elezioni precedenti (con il nemico Renzi come segretario).
L’idea di fondo – stringi stringi – era fingersi morto: “meno parlo, meno mi muovo, e meglio è”. Funzionava, quando funzionava, per evitare le interrogazioni al liceo. Ma in Parlamento ci si aspetterebbe qualcosa di più raffinato di una testa appiattita sul banco. L’immobilità del Pd durante l’ultima crisi di governo ha mostrato tutte le lacune di un partito che per conservare l’idea che ha (ormai solo lui) di se stesso si è autosabotato. Forse questa cosa che gli ideali di sinistra funzionano più in teoria che in pratica, il Pd l’ha presa troppo alla lettera. E mentre altri si muovono – magari male, in modo maldestro, spesso sguaiatamente – il Pd fatica a tenere il passo nella turbopolitica di oggi. Un’inadeguatezza che si palesa nei rari casi in cui si cerca di recuperare con un guizzo di modernità, dimenticandosi che non c’è niente di peggio che tentare uno scatto a freddo dopo essere rimasti fermi a lungo. Il goffo tweet di Zingaretti a sostegno del baraccone tv di Barbara D’Urso – chiuso anzitempo da Mediaset – in cui un politico valeva quanto una soubrette fedifraga o il recordman di palle da biliardo in bocca, ne è l’ennesima prova.
Dieci segretari in 14 anni, poi, sono cifre da presidente impaziente e mangia-allenatori, non da partito in grado di darsi una stabilità e programmare un futuro.
E ora? Molti chiedono a Zingaretti di restare anche se il suo messaggio d’addio pare netto (“Mi vergogno che nel Pd, da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid… ora tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità”). Dopo due anni passati a nascondersi davanti a sciagure come il Covid e Salvini ministro, alla fine è sbottato per una questione interna: abbastanza da far capire quanto il partito sia a pezzi.
A sentire i retroscenisti le dimissioni potrebbero essere una mossa per farsi rieleggere, un addio per candidarsi a sindaco di Roma o uno sfogo per essere stato lasciato solo – e con il cerino in mano – mentre Belzebù Renzi orchestrava il passaggio di consegne tra Conte e Draghi. C’è poi chi la vede come un’accusa alla vecchia guardia e chi ai filo-renziani rimasti nel partito.
Bisognerebbe avere il coraggio di dire addio ai Veltroni e ai Fassino, azzerare tutto. Zingaretti compreso. Rottamare, diceva uno che era passato di lì per darle, finendo col prenderle.
A prescindere da cosa succederà, possiamo però immaginare come andrà: male.