Una Gut-Behrami tornata agli altissimi livelli che aveva raggiunto prima dell'infortunio del 2017 da lunedì andrà a caccia del titolo mondiale le manca
Pensando ai Mondiali di sci la mente ci mette ben poco a riportarmi al febbraio 2017 sulle nevi di St. Moritz: spettatori a decine e decine di migliaia; bandierine rossocrociate mai ferme e l’inno elvetico a più riprese nelle orecchie grazie agli incontenibili atleti di casa, capaci di raccogliere tre medaglie d’oro e ben sette in totale, come non capitava dal 1989 (11 a Vail); la super domenica del 12 febbraio, con entrambe le discese e il titolo conquistato da Beat Feuz davanti a oltre 40’000 persone; la classe inarrivabile di una campionessa come Lindsey Vonn e la spontaneità di personaggi emergenti quali Sofia Goggia (quanto mancherà in questo finale di stagione) e Michelle Gisin, accomunate da una disponibilità tanto apprezzata quanto per nulla scontata in un mondo dello sport nel quale spesso più alto è il livello, più alti sono i muri.
C’è però un altro ricordo, un’altra emozione engadinese che riaffiora con prepotenza, come per certi versi scioccante e spiazzante era stato viverla quel venerdì 10 febbraio, quando in una discesa d’allenamento di slalom tra le due manche di una supercombinata che avrebbe poi regalato l’oro (Holdener) e l’argento (Gisin) alla Svizzera, Lara Gut (allora non era ancora la signora Behrami) si era infortunata gravemente al ginocchio sinistro, trasformandosi da regina attesa della rassegna iridata nella vittima più illustre della pista Engiadina. Già, perché la ticinese stava attraversando la forma della vita, era reduce nella stagione precedente dalla conquista della Coppa del mondo generale (oltre al globo di cristallo nel suo superG) e nella prima parte dell’inverno aveva già collezionato 9 podi (5 vittorie), tanto appunto da arrivare a St. Moritz nel ruolo di atleta da battere e in grado di lottare per una medaglia in almeno quattro discipline (alla fine ha dovuto accontentarsi del bronzo nella gara di apertura, il superG).
Ed è proprio per questo – oltre che per le splendide emozioni vissute – che pensando ai Mondiali al via lunedì a Cortina d’Ampezzo, la mente mi ha immediatamente riportato in Engadina. Oggi come allora, infatti, la 29enne di Comano arriva alla rassegna iridata da attesa protagonista (come ci aspettiamo molto dal resto di una Nazionale rossocrociata che sta letteralmente dominando la stagione). Ma se nel 2017 tale status era frutto di una normale e per certi versi inevitabile evoluzione di una ragazza che sin dai primi passi nel Circo bianco aveva messo in mostra il suo smisurato talento (nel 2008 appena alla sua quarta gara di Cdm e a soli 16 anni colse il 3o posto in discesa sempre a St. Moritz), stavolta dietro c’è il percorso tutto in salita di una donna che da quell’infortunio non era più riuscita a ritrovare le linee, le discese, le sensazioni, i sorrisi, le vittorie di prima. Fino a oggi appunto. E a una prima parte di stagione 2020/2021 nella quale la ticinese ha ritrovato dapprima la regolarità e in seguito gli acuti, tanto da salire sul podio sette volte (contro le 8 nelle precedenti tre annate messe assieme) e in quattro discipline diverse, nell’ordine: parallelo, superG (nel quale è reduce da 4 successi filati), discesa e gigante.
Sì, nell’anno della scomparsa di una delle più grandi sportive ticinesi della storia (ciao Doris), lo sport di casa nostra ha ritrovato una protagonista assoluta, che a Cortina proverà a chiudere i conti con il destino andando a prendersi un titolo che le si è finora sempre negato a un grande evento. Ma che merita forse più di chiunque altro.