La poesia di Gorman letta all’insediamento di Joe Biden è una cosa da tirar fuori i Kleenex. Resta da capire perché
Sono passati diversi giorni, ma ogni volta che riascolto la poesia di Amanda Gorman all’insediamento di Joe Biden mi commuovo ancora come un bambino. Tra un Kleenex e l’altro ho provato a chiedermi il perché, tralasciando la critica letteraria – che non conosco – e il fatto che il mestolino mi viene anche quando ascolto Caterina Caselli.
Una prima risposta si trova nella vita stessa di Gorman, incarnazione del sogno americano che a inventarsela non verrebbe così bene: afroamericana cresciuta da una madre single, che le insegna per prima cosa i ‘Miranda Rights’ – “Hai il diritto di tacere, tutto quel che dici potrà essere usato contro di te…” – per spiegarle cosa vuol dire essere neri in America. Eppure Gorman arriva fino a Harvard e adesso guardala lì, sotto al Campidoglio, a salutare il nuovo presidente. Longilinea, elegante, con la faccia gentile e lo sguardo determinato: rassicurante, anche nel far sentire bene noi vecchi progressisti all’europea, forse ancora schiavi di stereotipi tipo ‘I Robinson’.
Poi c’è naturalmente il balsamo delle parole dopo quattro anni di Donald Trump: “Abbiamo visto una forza che distruggerebbe la nostra nazione pur di non condividerla”, ma“non saremo respinti e interrotti dalle intimidazioni”, “ricostruiremo”. Retorico quanto volete, ma si trattava di un’occasione istituzionale per una ‘poeta laureata’, non di recitare in uno scantinato tra bohémien in dolcevita.
A un livello più razionale entra in gioco l’idea d’America che traluce dai versi: quella di un paese imperfetto, in costante costruzione. L’America che “per me non lo è mai stata, ma lo sarà” della quale parlava un altro poeta afroamericano, Langston Hughes. L’America – e la democrazia, ovunque si trovi – che non è un dato di fatto, qualcosa di costruito una volta per tutte, ma un continuo fare e disfare, un “lottare per forgiare la nostra unione”. Una nazione “tutt’altro che tirata a lucido, tutt’altro che incontaminata”; che però “non è rotta, ma semplicemente incompleta”. Nella quale tra l’altro “la quiete non è sempre pace, e le nozioni di quel che è giusto non sono sempre giustizia”; ma un’America che vive nel futuro e non nel passato, come invece voleva quell’‘again’ piantato accanto ai sogni di grandezza di Trump.
Poco importa se poi ogni tanto si torna al sogno puro e semplice, in cui “se fondiamo la misericordia con la forza e la forza col diritto, la nostra eredità diventa l’amore”. Siamo davanti a un cupolone che pare una torta di matrimonio, tra Lady Gaga e Jennifer Lopez, cos’altro dovremmo aspettarci?
Semmai un caveat va rivolto a come noialtri incastoniamo quella poesia. Lo vedo bene, nella mia stessa commozione, il rischio dell’autocompiacimento: ecco, io piango per la ragazzina nera intellettuale perché sono una personcina perbene, mica come quegli altri, quelli lì che stanno con Trump, brutti bifolchi. È proprio quel sentirsi migliori che contribuisce ancora – da entrambi i lati, pur con responsabilità diverse – a dividere anche culturalmente l’America, e non solo.
C’è un rimedio, per quanto temporaneo: staccarsi da YouTube e andare a rivedersi i meme del povero Bernie Sanders seduto sulla sua seggiolina pieghevole, con le mani infilate in un paio di vecchie muffole. Un personaggio da Grande Lebowski piantato in mezzo agli altri ospiti sul Mall. Perché sono America anche i fratelli Coen.