Lo scorso 27 dicembre è morto a Camogli Giorgio Galli, noto storico e accademico italiano
Giorgio Galli (1928-2020) è stato un instancabile esploratore della galassia politica. Storico, sociologo e politologo, ha fornito rilevanti contributi in svariati campi, per approdare, negli ultimi anni della sua vita, all’analisi dei buchi neri in cui operano i poteri globali. Iniziò ad occuparsi dei partiti nel secondo dopoguerra: monografie sulle tre formazioni principali (Dc, Pci, Psi), per poi passare all’analisi dei meccanismi elettorali ed istituzionali. Sua la formula del «bipartitismo imperfetto», destinata ad ampia fortuna, in cui Galli illustrava l’eccezionalità del sistema politico italiano, una costellazione dominata dalla Dc e dal Pci che però – per ragioni interne ed esterne – non dava mai luogo ad una reale alternanza alla guida della repubblica. Seguirono saggi, sempre pubblicati dal Mulino, come Il difficile governo (1972) e Dal bipartitismo imperfetto alla possibile alternativa (1975) in cui l’autore s’impegnava a prospettare una via d’uscita dai vicoli ciechi che paralizzavano l’Italia in quella fase.
Se la Dc poteva rimanere incollata al potere – questa la tesi di Galli – era perché la maggior forza d’opposizione, il Partito comunista, non rappresentava veramente un’alternativa agli occhi dell’elettorato. Ai comunisti mancava la necessaria chiarezza, sia sul piano ideologico (a parole ancora rivoluzionari, eredi della tradizione leninista e gramsciana), sia sul piano politico (legame di ferro con l’Unione Sovietica). Era questa ambiguità a rendere impossibile il ricambio alla direzione del paese. Galli aveva sottolineato questo blocco già negli anni Cinquanta nella sua pionieristica storia del Pci: «la dipendenza dall’Urss – il legame di ferro – è sempre stata da me interpretata come un limite alla capacità del Pci di esprimere nella società italiana tutto il potenziale di rinnovamento (talvolta di tipo rivoluzionario e talaltra di tipo riformista) della classe operaia e dei ceti popolari, che hanno trovato nel Pci la loro principale rappresentanza politica».
Anche la stagione della lotta armata ebbe in Galli un osservatore attento e scevro di pregiudizi. In saggi come Storia del partito armato 1968-1982 (1986) e Piombo Rosso (2004) mise in luce la subcultura della violenza maturata negli anni della contestazione giovanile, ma anche la corresponsabilità degli apparati di Stato deviati, le oscure manovre dei servizi, le complicità e i depistaggi. Uno scenario complesso e per molti versi imperscrutabile, che andava ben oltre lo scontro tra lo Stato e le Brigate Rosse: «il partito armato ha potuto resistere e riprendersi nelle varie fasi in parte perché l’insediamento sociale gli forniva quadri e retroterra logistico, ma anche perché, a causa della inadeguatezza del nostro sistema politico e della nostra classe di governo, non si realizzava l’aggregazione del consenso sufficiente a stabilizzare il sistema stesso».
Ma Galli pensava anche ad altro, non soltanto ai temi propri della politologia. La sua curiosità lo portò ad esempio ad occuparsi delle ideologie di destra in Europa, del potere militare, di Hitler e del nazismo magico, del rapporto tra politica ed esoterismo. Argomenti che sorpresero la comunità degli studiosi. Destò stupore, e anche qualche polemica, la decisione di ripubblicare nel 2002 il Mein Kampf di Hitler: un testo che Galli considerava fondamentale per comprendere l’abisso di barbarie in cui la Germania era precipitata dopo il 1933: «Questa riedizione del Mein Kampf – scrisse nella introduzione – ha dunque un triplice significato: il rifiuto etico-intellettuale di ogni tabù e di qualunque forma di censura; la storicizzazione di un testo la cui lettura deve rappresentare un imperituro monito; la denuncia di rimozioni e mistificazioni all’ombra delle quali si vorrebbero legittimare disinvolti quanto pericolosi revisionismi storiografici». L’ampia introduzione e le numerose note esplicative a piè di pagina non lasciavano alcun dubbio sulle intenzioni schiettamente scientifiche del curatore (a lungo vietata, La mia battaglia è stata infine ristampata anche in Germania nel 2016, due volumi muniti di un imponente apparato critico curato dall’Institut für Zeitgeschichte di Monaco-Berlino).
Anche il terzo campo che Galli esplorò con passione non mancò di sconcertare i colleghi cultori della materia: la rivalutazione delle culture tradizionali emarginate dalla rivoluzione scientifica del XVII secolo, ovvero l’astrologia, l’alchimia, la magia. Libri come La magia e il Potere (2004), Stelle rosse. Astrologia neo-illuminista a uso della sinistra (2006) ed Esoterismo e politica (2010) fuoriuscivano dal solco degli approcci canonici: furono perciò catalogati come opere bizzarre ed eccentriche, frutto di una mente bislacca. Sfuggivano ai più gli intrecci sotterranei che Galli intendeva portare in superficie, ossia i rapporti tra storia e mito che nel Novecento, il secolo delle ideologie politiche funeste, avevano irretito le folle, trascinandole nel baratro. Un filone di ricerca originale, che tuttavia non fece breccia nelle riviste politologiche più blasonate della penisola.