Maradona non era (soltanto) un calciatore, il miglior calciatore di tutti i tempi. Maradona è la sintesi di un popolo
‘È successo l’inevitabile’, scrive il giornale argentino Clarín. È morto Maradona. Brividi, tanti brividi. E un vuoto pazzesco. Anche se c’è chi dice che Diego in verità era già morto tanto tempo fa, che quello che ci era rimasto non era più lui, ci sono alcuni (come il sottoscritto) che continuavano a vedere in quell’uomo instabile, invecchiato e malandato, l’immagine del proprio eroe. Il guerriero malconcio dopo mille battaglie. Si dirà poi della sua vita disordinata, incoerente, piena di eccessi e di errori. Ed è tutto vero. Ma noi, i maradoniani, non vediamo ciò. O meglio: lo vediamo, ma (sappiate perdonare) chi se ne frega. Oggi vogliamo solo piangere.
Qualcuno ha mai provato la gioia di vedere i più potenti del pianeta umiliati da un uomo che, come unica arma, sapeva impugnare il pallone? Qualcuno ha mai urlato ‘goooool’ con tutta l’anima quando di fronte c’è mezza squadra inglese buttata per terra? Qualcuno ha mai pianto davanti alla televisione, vedendo come Diego tra le lacrime diceva ‘mi hanno tagliato le gambe’, ai Mondiali di Usa 1994?
Maradona non era (soltanto) un calciatore, il miglior calciatore di tutti i tempi. Maradona è la sintesi di un popolo: talento, carisma, eccessi, inferno e gloria. Tutto assieme in quel piccolo gigante. Parliamo del mito di un intero Paese segnato da mille cadute, che ha nel calcio la sua valvola di sfogo, quell’illusione che gli consente, almeno per un attimo, di rifarsi da tutte le sconfitte quotidiane che, posso garantire, da quelle parti sono tante, troppe.
Maradona è il calcio e il calcio laggiù è ciò che ci rende unici, speciali, noi stessi. Forse bisogna essere nati in Argentina per tremare come sto tremando mentre scrivo queste righe. Forse basta amare il calcio, chi lo sa.
Anni fa Jorge Valdano ha scritto un editoriale brillante: diceva che Maradona rappresenta l’essenza stessa dell’essere argentino. Uno strano spirito per il quale la finta vale più del passaggio, la furbizia e l’improvvisazione più di ogni strategia. Quello siamo.
Adesso Diego ha detto basta, si è fermato. Forse dobbiamo dirgli grazie. Perché ora noi, tutti i maradoniani di questo mondo, potremo goderci il nostro idolo senza più rimpianti. Non verranno più fuori frasi incoerenti, figli illegittimi, litigi assurdi e tutto quello che purtroppo ha riempito tante pagine della vita del ‘Pibe de oro’. D’ora in poi ce lo ricorderemo come più ci piace, chi con la maglia ‘albiceleste’, chi con quella del Boca, chi con quella del Napoli: petto gonfio, testa in alto, palla sul sinistro e il ‘dieci’ sulle spalle.
Oppure possiamo dirla con Eduardo Sacheri: “Quindi signori, mi dispiace. Non venite a chiedermi che lo giudichi con lo stesso metro con cui si suppone io debba giudicare tutti gli altri mortali. Perché a lui devo le due reti all’Inghilterra. E l’unico modo che ho per ringraziarlo è lasciarlo in pace con le sue cose. Visto che il tempo ha commesso lo stupido errore di continuare a trascorrere, visto che ha scelto di accumulare un sacco di presenti volgari sopra quel presente perfetto, almeno io devo avere l’onestà di ricordarlo per tutta la vita. Conservo il dovere della memoria”. Stadio Azteca, il 22 giugno 1986. Anch’io scelgo di fermarmi lì.
Hasta siempre, Diego.