Responsabilità civile, obbligo di dovuta diligenza, piccole e medie imprese: alcune cose da ricordare al termine di una campagna che ha ‘deragliato’.
Fa parte del gioco: durante una campagna per una votazione popolare, partigiani del ‘sì’ e del ‘no’ alzano i toni, gonfiano i fatti, affermano questo e sottacciono quello, rifilano a cittadini spesso ignari o disorientati mezze verità o qualche bugia. Non avevamo mai visto però tanti colpi sotto la cintola, né tanta pervicacia nel negare l’evidenza (se non nell’affermare il falso) come nelle ultime settimane. Fotografie manipolate; video ‘fake’ diffamatori sui social media; volantini ingannevoli; e anche una consigliera federale (Karin Keller-Sutter) iperattiva, che azzarda paragoni che non stanno né in cielo né in terra (“Sareste d’accordo se improvvisamente voi doveste essere ritenuti responsabili anche dei miei errori?”, ‘CdT’, 12 novembre) e taccia di neo-colonialista una proposta piuttosto terzomondista. La campagna sull’iniziativa ‘Per imprese responsabili’ è “deragliata” (‘Tages-Anzeiger’).
Ricordiamoci un paio di cose, per restare sui binari. Se un’impresa prenderà sul serio l’obbligo di dovuta diligenza, non avrà nulla da temere. Cioè: la casa madre in Svizzera non dovrà rispondere del comportamento illecito delle società controllate all’estero, qualora dimostri di aver fatto tutto quanto era ragionevole aspettarsi da lei per sorvegliarne l’attività e per porre rimedio a eventuali violazioni dei diritti umani e delle norme ambientali. I contrari all’iniziativa sostengono che si tratti di un’inversione dell’onere della prova, di una sorta di presunzione di colpevolezza. Non lo è. L’onere della prova rimane sempre a carico della parte accusatrice. È invece la ‘prova liberatoria’: qualcosa che esiste da oltre un secolo nel nostro Codice delle obbligazioni. E che va a favore dell’impresa stessa: anche nel caso in cui un tribunale (svizzero) dovesse stabilire un nesso causale tra il danno e l’attività dell’azienda controllata all’estero (e non, come i fautori del ‘no’ vogliono far credere, di qualsiasi fornitore), la casa madre in Svizzera verrà ‘scagionata’ se dimostrerà di essere stata diligente.
Ricordiamoci anche che l’alternativa è ben poca cosa. Sulla dovuta diligenza, il controprogetto contiene sì regole più severe di quelle oggi in vigore a livello di Unione europea. Tuttavia, l’invenzione di Karin Keller-Sutter non è una soluzione sostenibile. Quelle regole (circoscritte ai settori ‘lavoro minorile’ e ‘minerali provenienti da zone di conflitto’) hanno una portata insufficiente. E nell’Ue l’obbligo di rendicontazione (l’altro elemento dell’alternativa soft) si è già dimostrato ampiamente inefficace. Il fatto è che, senza una clausola sulla responsabilità civile, gli strumenti previsti sono destinati a diventare una foglia di fico. Se non peggio: a cosa serviranno, se non a prendersi più facilmente gioco dei concorrenti, norme di comportamento non accompagnate da un mezzo di pressione adeguato (come le cause civili, appunto, che saranno poche comunque: troppo costose, troppo esigenti per la parte accusatrice) che spinga le imprese a rispettarle? Non a caso le 2’500 grandi imprese (Coca-Cola, Philips, ecc.) riunite nella European Brands Association chiedono regole vincolanti, sia in materia di dovuta diligenza che di responsabilità civile.
Anche l’iniziativa ha le sue pecche. Ad esempio: non s’è ancora capito – malgrado le rassicurazioni dei promotori – quali e quante piccole e medie imprese verrebbero colpite, né come farebbero queste a ottemperare a un obbligo di dovuta diligenza formulato in modo vago ed esteso all’intera catena di approvvigionamento. Ma toccherà semmai al Parlamento fissare i giusti paletti. E anche coloro che oggi parlano a sproposito di processi a valanga, ingerenza negli affari di Stati sovrani e 80mila imprese colpite, sanno bene che il boccino in mano ce l’avranno loro.